Il monologo di Paola Cortellesi su Biancaneve: le fiabe e la lotta tra archetipo e stereotipo
«C’era una volta…». E si apre un mondo: di buoni e cattivi, re e regine, fate e streghe, lupi e agnelli, brutti dal cuore d’oro e belli con l’anima da mostri. Ci sono tutti; c’è la vita nella favola e, nonostante l’incipit declinato al passato, i suoi personaggi sono tra noi, tutti i giorni. Ogni favola si porta dentro la sua “morale”, che ne attesta le specifiche finalità pedagogiche, volte a guidare l’apprendimento dei più piccoli verso valori diffusi nel contesto prossimo e distante, introducendoli a ciò che sarà la vita futura. Proprio sulla “morale della favola” si è acceso in questi giorni un intenso dibattito, innescato dal monologo di Paola Cortellesi alla Luiss di Roma, in occasione dell’inaugurazione del nuovo anno accademico. Oggetto del dibattito, la favola di Biancaneve, assunta dall’attrice e regista come esempio di racconto sessista, strutturato su stereotipi non al passo con i tempi e imperniato su messaggi impliciti che rimandano un’immagine del femminile parziale e distorta. «Ma è solo una favola!», hanno replicato i suoi detrattori, accusandola di voler introdurre nella narrazione per l’infanzia il “politicamente corretto” e snaturare l’originalità della storia, virgolettando la parte del monologo in cui la Cortellesi afferma che il principe bacia Biancaneve senza averne prima chiesto il consenso. Il focus si sposta così dalla dissertazione sulla “morale della favola”, alla politica, a poli ed opposizioni che trovano in Biancaneve un pretesto per ribadire un’ideologia più che un’idea, realizzando nei fatti proprio ciò di cui si accusa l’attrice, ossia un fraintendimento sul valore pedagogico del racconto. E come spesso accade quando si adotta una comunicazione di parte, vengono messe in campo argomentazioni che tolgono valore ai messaggi portanti, confondendo la parte con il tutto e implicitamente ignorando la complessità della comunicazione. Nei fatti, il monologo dell’attrice sembra aver messo in luce la fondamentale verità che tutto ciò che riguarda l’infanzia è una faccenda seria, perché qualsiasi input esterno rappresenta per la mente estremamente plastica del bambino un importante strumento di apprendimento che, in quanto tale, va scelto con cautela, tenendo conto del futuro valore formativo e performativo. Quindi, se si dice ironicamente che Biancaneve fa da colf ai sette nani, non si intende privare i bambini di un modello positivo di accoglienza e femminilità, bensì sottolineare che la donna non è solo questo, ma tanto altro. Così come accadeva nelle più antiche tradizioni orali del racconto, in cui la donna era definita da qualità che ne sottolineavano la forza e la determinazione, prima che la scrittura maschile ne ingabbiasse il valore in pochi semplici tratti specifici, offrendo un modello di persona delicata e fragile, dipendente dal sostegno maschile. Infatti, a ben riflettere, le figura femminili delle favole hanno sempre bisogno dell’aiuto di un uomo potente – principe, padre o signore del castello – che le protegga e ne metta in risalto il valore, riferito soprattutto alla bellezza, primaria rispetto ad altre qualità ben più incisive. Un femminile ingabbiato in stereotipi, quindi, che negano il valore della complessità personale, ma soprattutto mettono in campo una dialettica impari tra stereotipi ed archetipi, non tenendo conto della pluralità di modelli disponibili alle nuove generazioni. Senza nulla togliere alle favole classiche che hanno incantato grandi e piccoli, non si può fare a meno di cogliere all’interno delle storie una pedissequa ripetizione di personaggi simbolo che hanno tolto colore agli archetipi – figure dell’inconscio collettivo portatrici di valori fondamentali – a favore di stereotipi non più al passo con i tempi. Perché oltre all’archetipo della madre, della sposa, della fanciulla gentile dall’animo nobile, esiste quello della donna guerriera, dell’amazzone, della regina potente, non per questo necessariamente cattiva, ma arguta e capace di guidare il suo popolo meglio dello stesso re. Esempi che la Storia, anche passata, ci ha consegnato più volte ma che non trovano posto nelle favole classiche, ove i superpoteri femminili vengono spesso affidati ad una bacchetta magica, delineando una donna incantatrice che rende possibile l’impossibile attraverso sortilegi, e non facendo riferimento a doti naturali di razionalità e coraggio. Bisognerebbe riscrivere le favole quindi? Probabilmente sì, o almeno revisionarle. Non per rinnegare il passato, ma per accostarlo ad un presente in cui i ruoli dei due sessi sono profondamente cambiati, e le principesse desiderano essere artefici del loro destino, oltre che capaci di salvarsi da sole, come la Delia protagonista dell’antifiaba cinematografica «C’è ancora domani». Perché le donne hanno qualità e forze sufficienti per scrivere la loro storia, nonostante orchi cattivi travestiti da principi azzurri si ostinino a non volerlo accettare.