Per quanto fosse chiamato «architetto delle capitali» e considerato dai suoi contemporanei il migliore in circolazione nel mondo, Filippo Juvarra (Messina, 1678 – Madrid, 1736) non era soddisfatto dei riconoscimenti professionali avuti perché si portava dietro una serie di delusioni non da poco: soprattutto quelle che lui, prete e poi abate, aveva dovuto subire dal Vaticano (oggi si chiamerebbe «fuoco amico»).
L’ultima, quella per cui decise di non mettere più piede a Roma, era legata alla Sagrestia vaticana: nel 1732 sembrava davvero che Clemente XII fosse propenso ad affidargli il progetto (di cui esiste un magnifico modello). Invece non fu così, il Pontefice non diede corso neppure alla sua realizzazione del monumento funebre di Benedetto XIII, perché da Papa-Re era entrato in pessimi rapporti con Casa Savoia, di cui Juvarra a Torino era primo architetto di corte. Tra le precedenti delusioni, già nel 1711, quando da giovane era impegnato a Roma quale scenografo per il teatro del cardinale Ottoboni, aveva stabilito un contatto con l’imperatore Giuseppe I d’Austria, il quale però morì subito dopo; poi era andato a vuoto anche un approccio con il francese Luigi XV. Ma fu soprattutto l’ennesimo no del Vaticano, nonostante che nel 1724 avesse ottenuto la carica, onorifica ma altamente prestigiosa, di architetto della Fabbrica di San Pietro, a fargli cercare un’altra committenza straniera di primo piano.
Come se avesse bisogno di una ricompensa, probabilmente più morale che materiale. La testimonianza di un episodio di questa ricerca nelle corti europee ci viene dal nuovo libro di Cristina Ruggero, qualificata studiosa dell’architetto messinese: «Disegni di Prospettiva Ideale (1732). Un omaggio di Filippo Juvarra ad Augusto il Forte e i rapporti fra le corti di Roma, Torino, Dresda», edito da arthistoricum.net. È la prima volta che viene pubblicato l’intero corpus di 41 disegni, conservato al Gabinetto nazionale dei Disegni e delle Stampe di Dresda, utilizzato dall’architetto come una sorta di autopresentazione – vera operazione di marketing – indirizzata al Grande Elettore di Sassonia, che era diventato anche re di Polonia. Ancora più di altre occasioni, questi disegni confermano le qualità artistiche del tratto di Juvarra, anche perché non si tratta dei celebri schizzi o “pensieri” in cui la mano scorreva veloce quasi come l’idea, ma di opere meditate.
Scrive assai nitidamente Ruggero: «Una serie di imponenti fantasie architettoniche arricchite da magnifiche citazioni di sculture ispirate all’Antico, al Rinascimento, al Barocco. I disegni offrono una sintesi pressoché unica di quello che era il concetto di spazialità tardo-barocca e settecentesca applicata soprattutto alla progettazione delle grandi città italiane, francesi e di ambito tedesco nel XVIII secolo. Alla concezione dello spazio si aggiunge la dimensione storica, dove il forte interesse per le culture classiche (egizia, greca, romana), ma anche per quelle più vicine, in termini temporali, permette una rilettura dei soggetti in chiave moderna, poiché le opere di antichità vengono accostate a capolavori coevi che Juvarra, da abile scenografo, riesce a coordinare fra loro, quasi con qualità pittoriche, inserendoli in una dimensione nuova, seducente, ricca di riferimenti e di associazioni per chiunque si appresti a consultare il volume. Questi disegni non descrivono perciò soltanto il genere, apparentemente frivolo, del capriccio architettonico, ma sono vere e proprie fonti di ispirazione per architetture reali e possiedono soprattutto un valore come opere d’arte autonome».
La riproduzione nel libro di tutti i disegni del corpus (e anche di molti altri più o meno noti, comprese le vedute di Messina) dà conforto e spessore alla frase «opere d’arte autonome» e rivendica il diritto al messinese di essere studiato in maniera approfondita anche come artista figurativo, capace di un mirabile senso della prospettiva, cosa non avvenuta nonostante la notorietà internazionale dei suoi disegni. Penso anche a certi schizzi dal tratto particolare, che mi hanno fatto sempre pensare a una sorta di preimpressionismo di visionario valore.
Augusto il Forte era appassionato di arte classica e incline a un’urbanizzazione elegante e legata al territorio, quella che era proprio nelle corde di Juvarra. Sarebbe stato il committente ideale, ma, come era accaduto con Giuseppe I, morì dopo sei mesi dalla ricezione dell’omaggio. Non era fortunato Juvarra (e forse neppure portava fortuna) e quello fu il suo ennesimo sogno infranto. Ma la qualità d’artista rimane evidente: «Tutti i disegni – scrive Ruggero – sono eseguiti a penna con inchiostro color seppia e ombreggiature e poi acquarellati con toni caldi di marrone»: se non è un pittore questo! Del resto, Francesco Susinno in «Le vite de’ pittori messinesi» (1724) aveva definito l’abate «pittore, architetto e cesellatore» (come sappiamo, veniva da una famiglia di argentieri).
Due notazioni ancora conoscendo lo spirito sapido di Juvarra, tramandato come uomo capace di motti di spirito, si può pensare che l’accentuato ricorso alle rovine romane, spesso messe in primo piano, sia in non troppo velata polemica con la trascuratezza con cui il governo papale teneva alcuni resti di antico pregio, abbandonati a se stesse. Una specie di vendetta. Poi, il disegno del foglio 44 presenta sulla sinistra una statua di Nettuno col braccio proteso verso le acque. Certo, una figurazione comune, ma come fare a non pensare alla scultura del Montorsoli che certamente il giovane futuro architetto aveva ammirato, nella sua Messina?
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