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Il fuoco del male diventa scrittura. Tea Ranno racconta l’odissea dell’endometriosi: il dolore e la paura, il sostegno e l’«amurusanza»

«L’intento di “Avevo un fuoco dentro” (Mondadori) è quello di permettere alle donne che si riconosceranno nei miei sintomi di andare dal ginecologo e poi parlare della maternità che deve essere una libera scelta. Io posso decidere se avere o no un figlio ma non deve essere la malattia dell’endometriosi che mi pone di fronte all’irreparabile. Siccome le diagnosi sono fatte come sempre molto tardi e molto spesso le tube e le ovaie sono già compromesse, c’è la sterilità.

Questi sono i due argomenti che ho voluto trattare, e poi sì, il dolore, la malattia, la scrittura, la sorellanza femminile». Esordisce così Tea Ranno, nella conversazione sul suo ultimo libro, un “memoir” in cui «ha lavorato a togliere perché erano troppe le cose legate alla malattia che però non sono venute fuori proprio perché ho mantenuto un senso di misura».
Una malattia, l’endometriosi, che ti consuma, ti sbrana, «un cane dai denti aguzzi, un fuoco nelle viscere», dice l’autrice, siracusana di Melilli ma ormai “romana” di adozione, un impegno nella scrittura che sin da «Cenere» (Edizioni e/o 2006, finalista ai premi Calvino e Berto, vincitore del premio Chianti) e poi in «La sposa vermiglia» (Mondadori 2012, vincitore premio Rea), «Viola Foscari» (Mondadori 2014), «Sentimi» (Frassinelli 2018), «L’amurusanza» (Mondadori 2019), «Terramarina» (Mondadori 2020, premio Città di Erice 2021), «Gioia mia» (Mondadori 2022), guarda all’ «amurusanza» femminile, una casa comune senza confini e senza differenze. Quanto al fuoco della malattia, «un fuoco memento e tormento che rimane nella pelle dell’anima», come recitano i bei versi della Ranno posti in esergo al romanzo, è lo stesso fuoco della scrittura che «resta dentro sulla pelle dell’anima, come un’ustione, che pulsa a memento a tormento e vivi, ridi, nuova e contenta».
«Avevo un fuoco dentro», subito accolto a livello editoriale con grande attenzione e partecipazione per una divulgazione anche presso centri per l’endometriosi e studi ginecologici, ha già iniziato a viaggiare, da Roma a Messina, dove l’Autrice incontrerà lettrici e lettori venerdì alle 19 alla libreria Bonanzinga.
Un dolore che non si può dire, ma si può scrivere. Dopo dieci anni da quando, nel 2009, è stata salvata a Siracusa da una peritonite acuta purulenta conseguenza dell’endometriosi, ne ha scritto in forma di romanzo.
«Una malattia per la quale sono stata curata, ma che aveva sempre il sopravvento, fino a colonizzare gli altri organi, un fuoco che dieci anni dopo la peritonite, che mi ha portato a un passo dalla morte, ho voluto raccontare. Ho deciso di parlarne per dare voce alle donne che ne soffrono, per fare rumore perché intorno a questo argomento c’è tanto pudore e tanta discrezione. Ho lavorato a togliere da questa materia infuocata, ho eliminato altre complicanze che hanno segnato il percorso della malattia, un dolore che non si può dire, infatti. Perché le parole comuni non bastano, allora viene in aiuto la scrittura con le sue metafore, le similitudini potenti, solo così si può indugiare su quel dolore per dare a chi legge la percezione del dolore».
Un memoir, certo. I ricordi però sono basati sui diari che lei teneva. Insomma, per evitare la “scordanza”, l’attitudine alla disciplina della scrittura le ha permesso di fare un racconto credibile e intenso.
«I diari hanno custodito i ricordi. Ma è stata fondamentale la lettura di “Il narratore ferito” di Arthur Farnk, che analizza anche il bisogno di raccontare tutto quel che c’è attorno a una malattia, a spingermi a tirare fuori quei diari degli anni Novanta sigillati in una scatola. I diari accoglievano quelle storie, le hanno custodite per anni; nel momento in cui li scrivevo erano una cura, vi riversavo dolore, rabbia, mortificazione, ora sono utili per far capire che abituarsi a stare nel dolore fisico, perché, come si dice, con quei dolori femminili bisogna convivere, non va bene. Bisogna, invece, andare dal ginecologo, avere come obiettivo la salute, la guarigione. Raccontarne è uno strumento importante per far sentire la voce di chi non riesce a dirlo il dolore».
Un fuoco che resta dentro, magma incandescente come la scrittura…
«Anche adesso parlarne fa male. Il dolore nella memoria del corpo rimane come un’ustione, tanto che mentre ne scrivevo ho provato di nuovo quel dolore, pur essendo guarita. Però la lava finché rimane dentro bolle e ustiona, poi quando si tira fuori e si raffredda diventa terra fertile su cui possono crescere le ginestre, è la vita che riprende nel giallo, nel sole, nella luce. E il giallo, il colore della consapevolezza, che adesso colora anche panchine simbolo, è proprio il colore-codice dell’endometriosi».
Anche in questo libro, come negli altri suoi, a partire dal “circolo del sangue” che unisce donne afflitte da endometriosi, c’è sempre questa atmosfera “amurusa”.
«Io l’ho sperimentata veramente questa amurusanza. Nel 2009 le mie bimbe avevano dieci anni, facevano la quinta elementare, e dopo i giorni terribili in cui ho vissuto la sensazione della morte, rimasi ricoverata in Sicilia per un mese; poi tornai a Roma prima aiutata da mia madre, poi dalle amiche che ho avuto attorno nel momento del bisogno e che pensavano alle mie bimbe. Sono le “preziose”, quelle che, come ho scritto in “Gioia mia” e in altri miei libri, si sanno fare corda che ti tira fuori dal pozzo».
Nei suoi romanzi, come in questo, c’è sempre l’amore filiale e materno per la Sicilia, grande madre generosa di storie e di bellezza. Anche la Sicilia è amurusa?
«Amurusa, sì, sempre, con il suo richiamo continuo di sirena. Ne sono andata via perché mio marito aveva vinto un concorso a Roma, ed ero contenta di farlo. Ma poi lì, per quanto ammaliata dalla bellezza della città, mi sono ritrovata a provare la nostalgia del mare, del dialetto, degli odori di casa mia, della famiglia, di ciò che cucinava mia madre. E allora ne ho scritto: ecco, per viverla, ne scrivo».

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