Dov’è ora Igor, l’uomo che Clotilde amava e temeva? Igor e Clotilde hanno avuto un incidente con l’auto e sono finiti in ospedale: lei soltanto ferita, lui in coma. In corsia Clotilde conosce Angelica, la ragazza che col suo motorino ha provocato l’incidente. E se ne innamora. Ricambiata. Dopo un po’ Igor esce dal coma, ma non è più quello di prima: l’incidente l’ha trasformato in un bambino che ha bisogno d’essere imboccato. Nasce così un imprevisto e inconsueto ménage à trois: Clotilde, Angelica e Igor sotto lo stesso tetto cercano la nuda verità del quotidiano dentro uno spazio magico e claustrofobico. Tra menzogna e verità, tra necessità e incongruenze, la quotidianità nella casa è ossessionata e protetta e minacciata dalla Marabbecca, «personificazione nel folklore siciliano dell’oscurità e delle insidie dell’inconscio».
Chi è la «Marabbecca», titolo del nuovo romanzo di Viola Di Grado appena pubblicato da La Nave di Teseo (e proposto allo Strega da Daria Bignardi)? Lo spiega la protagonista e voce narrante del romanzo, Clotilde: «Una donna fatta di buio, che dal buio emerge per trasformare in buio anche te. (…) La immaginavo informe, come un’ombra. La inventarono le madri contadine per impedire ai figli di cadere nei pozzi: era lì che viveva, nera nel nero, in silenzio, in attesa di vita, di un corpo da annientare». Viola Di Grado anche in questo romanzo antepone la sua vis poetica alla complessità del mondo. E questo fa bene a noi lettori, perché, pur evitando qualunque forma di categoricità, ci indica una via d’uscita, un principio di comprensione, una scorciatoia per la verità e non un sentiero interrotto dalla mediocrità e dai limiti del raziocinio.
La parola chiave della sua letteratura diventa «mentire»: «Mentire è come guidare la macchina, una volta appreso il gesto lo fai in automatico. Mentire ti porta dappertutto, a cento all’ora, finché sbatti contro un muro…». C’è poca speranza nei romanzi di Viola Di Grado. Clotilde confessa a un certo punto: «Chi torna in Sicilia per una disgrazia finisce sempre per restare. Impossibile ripartire. La disgrazia si riassorbe ma tu stessa diventi la disgrazia: una creatura confusa reclamata dal paesaggio, da quest’isola indolente. Diventi una ferita ambulante». Ecco, la caratteristica della narrativa di Viola Di Grado è quella di andare dritta allo scopo, senza tanti fronzoli, senza nessuna strenua e inutile ricerca per scovare letteratura da qualche parte del quotidiano. Nei suoi libri c’è quello che si potrebbe descrivere come un investigatore che ha bisogno d’indagare (non un semplice affabulatore dunque), che va alla ricerca del mistero: e il mistero siamo noi.
Come quando la protagonista del suo precedente romanzo, «Fame blu», scopre che essere amati significa essere divorati: «… quando finì di spogliarmi e mi disse Ti amo sapevo bene che non era per me, che era una frase per altri o di altri, l’eco impersonale di un ricordo, come la luce acida che rimane sulla rètina per un istante dopo aver visto una luce forte…». Ebbene, anche in «Marabbecca» siamo ammaliati dal racconto di una storia d’amore, vera e propria metafora di come la ricerca disperata di appropriarsi di un’altra persona, dall’altra persona finisca col farti fagocitare, come in un continuo ribaltamento della dominazione-sottomissione, nel ritmo ossessionante di un incessante scambio di ruolo fra carnefice e vittima: «Come faceva sempre a essere così allegra, a restare in equilibrio sulla superficie della vita, senza cadere giù? La sua allegria era un mistero ed era la mia schiavitù».
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