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Quell’isola di Nonò tra incanto e prigione. L'esordio narrativo della libraia palermitana Claudia Lanteri

Siamo tutti su una strana linea del tempo e quello declinato nell’isola, nel bel romanzo «L’isola e il tempo» (Einaudi, nella fascinosa collana “Unici”), esordio narrativo di Claudia Lanteri, libraia palermitana, mantiene la sua ambivalenza come spesso è avvenuto nella geografia letteraria in cui l’archetipo e il topos polisemico dell’isola, luogo di perdita e di salvataggio, grembo materno e prigione incantatrice, incrocio di desideri e passioni, diventa un’esperienza dell’anima.

E nell’isola di Onofrio, detto Nonò, la voce narrante di questo romanzo di denso turgore narrativo, condito di lessemi dialettali e flessione isolana, l’isola nella quale si riconosce Linosa, lontana da Lampedusa e ancor più dalla Sicilia-Italia, convivono le forze antinomiche di incanto e inganno, nel cui spazio circoscritto eppure aperto all’incontro e affacciato sull’illimite le coordinate cronologiche si confondono e lo spazio-tempo diventa assoluto (non si aspetta il futuro sull’isola e i verbi al futuro coniugano il nulla).

Un cronotopo essenziale per la struttura stessa della narrazione e per il destino di Nonò che mentre racconta è sia l’adolescente che vive i fatti, sia l’adulto che anche trent’anni dopo ha necessità di mappare quei fatti raccontandoli a chiunque incontra. Perché a qualcosa servono i racconti, è «come se mettere un paio di occhiali a fantasia per vedere il mondo in un modo nuovo, che non avevi previsto o calcolato». Quello di Nonò sull’isola è un paradiso privato vissuto con la curiosità e l’immaginazione di avere per abitazione non tanto la sua povera casa ma un luogo dove le stagioni sono mutevoli come il mare, dove grotte e passaggi, montagna e fondali, dammusi e nascondigli sono favolosi, e la natura, gli animali in particolare, stormi di turriache e colonie di pesci, alimentano l’aria d’avventura che il ragazzo respira stando spesso nascosto «appiattito sui gomiti» per osservare senza farsi trovare.

Figlio con due fratelli del pescatore Salvatore, mediocre come padre e peggiore come marito, e di Angelina, bellissimo personaggio simbolo della potenza del femminile perché «le femmine, fatte madri, ci perdono il sonno e ci guadagnano la preveggenza», diventa l’ “assistente” del naturalista Edoardo Delmasso, giunto sull’isola-laboratorio per raccogliere campioni di animali e di piante. Si è sulla soglia degli anni Sessanta, sull’isola non c’è la corrente elettrica e per approvvigionarsi di acqua e di altro si aspetta l’arrivo della nave quando può approdare, ma per Nonò l’isola non è «lo scoglio bruciato sperso nel mare» come ritiene la gente che vi arriva d’estate, ma «la terra che a marzo esplode senza essere arata, e le farfalle e le api si abbuffano di fiori selvatici, e migrano i spezzaferri dall’Africa, e i giarnoni, ed è tutto verde». È bello vivere tra la luce e il mare ma con i piedi ben radicati a terra come le madri dell’isola che il mare lo guardano da lontano prese come sono dalle faccende che sono «i modi in cui certe madri ti abbracciano».

Ma un giorno l’avventura di Nonò si colora di mistero quando arriva un barchino con a bordo un naufrago e il cadavere di sua moglie. Si tratta di uno skipper che racconta l’incendio della barca sulla quale viaggiava la facoltosa famiglia dei Domoculta, padre, madre e tre piccoli figli, scomparsi nell’incidente dalle molte ombre mai chiarite dall’ambiguità del naufrago. Così Nonò da assistente di Dalmasso diventa «indagatore principiante» d’un giallo che s’incaglia nelle secche dell’indagine ufficiale. Là dove la luce è più forte, si sa, più fitto è il buio e il lutto.

Passano gli anni e Nonò, ormai solo, rimane come prigioniero di quella memoria collosa, ma è per quella verità faticosa che ha scelto di rimanere sull’isola a vivere il tempo di quel mare che lo abbraccia come un’amante o come una madre e condividere il destino di quelli che non se ne vanno.

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