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Che belle, le creature “sbagliate”. A colloquio con Sonia Serazzi

Nell’ultimo romanzo della scrittrice calabrese «Una luce abbondante», la sapienza del cuore d’un gruppo di bambini che caparbiamente inventano l’amore e il futuro

Nell’ombra e nel semplice, come nella miseria, si nasconde la molteplicità sacra delle nostre vite. Basta saperle guardare. Lo fa Sonia Serazzi che «quando una storia arriva – dice – non la inseguo, per me la scrittura deve essere un regalo che viene da quello che incontro, dai volti, dalle storie. Quando arriva qualcosa di così forte da procurarmi il desiderio di scrivere a quel punto mi metto umilmente al tavolino».
E la storia di «Una luce abbondante» (Rubbettino), il bel romanzo in cui c’è un intreccio di esistenze “sbagliate”, perché la Serazzi è appassionata di piccole storie che non intende sacrificare alla «magica potenza della trama», «è arrivata quando su un giornale ho letto poche righe in cui si parlava di una bimba che viveva in uno stato di abbandono, a causa della mamma afflitta da una fragilità psichica, e lei nonostante questo era una bimba brava a scuola e aveva imparato a fare tutta da sola. Così ho deciso di amarla come potevo, raccontando la sua storia. Ed è nata Francabbù».
Calabrese per parte di padre, anche se nata a Napoli, Sonia vive in Calabria e qui, in una Calabria-mondo, ha ambientato il suo primo romanzo «Non c’è niente da fare a Simbari Crichi» (Premo Feudo di Maida). E dopo «…E le ortiche c’hanno ragione» e «Il cielo comincia dal basso» (Premio Città di Siderno e Premio Cultura Mediterranea) e quindi «Chiedo istruzioni ogni notte» (con Antonio Cavallaro), tutti editi da Rubbettino, «Una luce abbondante» parla di un luogo, Sacravento, in cui il mondo è «un lavoro d’aghi che avanzano a punto croce: il verde degli alberi scintilla al sole, ma viene dalle radici sotterranee» e le creature “sbagliate” che lo abitano, avvezze ad andare controvento, rotolano in un azzurro salvifico anche in mezzo alle onde.

Da Simbari Crichi a Sacravento: luoghi narrativi dove ambienta le sue storie.

«Mi piace creare luoghi dove le storie possano respirare libere e in cui ogni lettore possa sentirsi a casa in quello che racconto. In Simbari Crichi la coloritura meridiana era forse più evidente perché c’era anche un’adesione a certi stili di vita, a certi sguardi, anche a certe ferite, raccontarle per trascenderle in qualche misura. A Sacravento i luoghi sono più sfumati perché l’attenzione è più alla dimensione esistenziale, spirituale, emotiva delle creature».

Il nome Sacravento, un nome parlante per storie “controvento”, sembra avere a che fare con la sacralità delle sue storie.

«Il vento è un soffio, lo Spirito nella tradizione spirituale è un soffio, che parla con la delicatezza della rugiada, dicono le Scritture. Ci aspettiamo sempre che le cose importanti arrivino con suoni fortissimi, in realtà molto spesso parlano con un mormorio di vento leggero; quindi mi piaceva raccontare le storie di creature che vivono in un posto dove le cose importanti vengono leggere, quasi nascoste. Francabbù dice una cosa importante: “Vivo in una famiglia sbagliata che mi ha insegnato le cose giuste” e questo lo penso di molti di noi, aver imparato le cose giuste nelle famiglie sbagliate, dico sbagliate secondo un criterio borghese di valutazione. Che poi di sbagliato agli occhi di Dio ci sono pochissime cose, pochissime creature. Ci sono gli orrori criminali».

Francabbù, Marsol, Sarsì, nomi “strani” per dei bambini “vecchi”. Forse vecchi perché sapienti?

«L’archetipo del senex è solitamente contrapposto all’archetipo del puer. In realtà c’è una fanciullezza nella senilità e c’è una sapienza nel fanciullo. I miei bimbi sono “vecchi” perché hanno già visto tutto, e anche perché, povere creature, il mondo li ha costretti a vedere tutto molto prima di quanto fosse giusto. Quanto ai nomi, in Francabbù, che è la voce potente e sfacciata del testo e riflette sul bene e sul male, si nasconde il “buh” incerto dei bambini ma anche una franchezza che la caratterizza. Lei cerca di capire dove stia il mondo tra la follia della madre e la sapienza evangelica del padre e cerca la sua strada così come la cerca tra le cose che la madre ammassa in casa. Spesso i nostri figli si trovano la testolina piena di pensieri che noi abbiamo pensato per loro e sono costretti a fare ordine per capire quale vale e quale è giusto per loro, e un po’ Francabbù racconta questo conflitto. Marsolè una creatura che impara a scegliersi il posto dove sta bene e quindi fuggendo dalla famiglia sceglie Francabbù come sorella e Marinzaina e Silverio come genitori, una mamma apparentemente folle e fragile che lo tratta come un angelo e che gli riempie le tasche di biglie colorate per guardare nei piccoli mondi colorati nei quali Marinzaina si rifugia contro la durezza del mondo. Questo bimbo mi piaceva per il suo mutismo e quando impara a parlare dice poche parole ma giuste. In Sarsì c’è un nome nascosto che è Sara, e poi c’è il “sì” alla vita; è una creatura silenziosa che respira a fatica per la sua patologia ma che prova a saltare, a vivere, fa gesti d’amore silenziosi e accoglie su di sé la preghiera di suor Teresa con cui vive. Sarsì incarna lo sguardo contemplativo,Francabbù è l’intelletto, lei deve discernere, esaminare, valutare».

I ruoli di Silverio e Marinzaina sono interscambiabili. Silverio è anche madre, e pure la suora è un’altra madre.

«Quando ho finito il libro ho capito che dentro c’era una sorta di movimento d’amore, vince chi lo regala e sia Silverio che Marinzaina come suor Teresa regalano cose, attenzione, cure d’amore. La maternità, la genitorialità in questo libro fanno capire che si può essere genitori di figli che non sono i propri. Dobbiamo guardare dentro questo “campo di orfani ignoti”, bambini che hanno genitori che non sanno generarli alla vita, e professori, maestri, amici che sono diventati genitori per qualcuno. Come dice Marsol: “Avere figli non è spremersi uno specchio dai lombi”. Mi piaceva sganciare il figlio dalla pretesa narcisistica di partorire uno specchietto. I figli non sono cosa nostra, sono della vita».

L’azzurro dell’ambulanza che soccorre corpi e anime è soffuso in tutto il romanzo e pare proprio emanare dalla luce abbondante del titolo. Un’azzurrità evangelica?

«L’incipit recita: “Viene l’azzurro ed è una fine”. L’azzurro può essere duplice: il laico ci trova l’azzurro dell’ambulanza, il credente legge quelle righe come fossero apocalittiche, un annuncio di quello che accadrà alla fine dei tempi. Ma anche il non credente vi scorge il tracollo umano: se ci pensiamo, arriva l’ambulanza e crollano mondi e anche quando arriverà la fine dei tempi crolleranno mondi, secondo le Scritture, per chi ci crede. Allora l’azzurro racconta un crollo e un nuovo inizio, c’è sempre un crollo, può essere un dolore, una ferita, un abbandono, ma a un certo punto capiamo che può essere un nuovo inizio. Vorrei che chi leggerà questo libro trovi nelle sue pagine la certezza di poter avere un futuro anche quando un mondo sembra crollare».

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