«La felicità di essere vivo – come scriveva in “Diario d’inverno”, uno dei suoi libri più toccanti, Paul Auster, il grande cantore dell’umano, morto il 30 aprile scorso nella sua casa di Brooklyn a 77 anni – , la felicità di sentire il presente che lo circonda e lo intride e dilaga in lui con la repentina straripante consapevolezza di essere vivo», Auster la dimostrava sempre anche quando sentiva la «tenebra nelle ossa» per le difficili prove della vita, tra le quali, prima che si ammalasse, la perdita del figlio Daniel, morto per overdose nell’aprile 2022, sei mesi dopo essere stato accusato della morte della figlioletta di 10 mesi, sempre per overdose. Eppure, due mesi dopo la scomparsa di Daniel, nel giugno 2022, Auster assieme all’amatissima moglie, la scrittrice Siri Hustvedt, era a Taormina, per ricevere il “Taobuk Award for literaryexcellence” nell’ambito del festival letterario Taobuk, forse per «stanare la morte che abita in ciascuno di noi». Fu affabile e generoso con i giornalisti dopo avere svolto la sua lezione «Verità è menzogna, menzogna è verità», un viaggio all’interno della sua “stanza” narrativa (immagine da cui era fortemente attratto, perché, diceva in «L’invenzione della solitudine» ricordando Dickinson e Hölderlin, «la memoria stessa è una stanza dove risiede un corpo, il corpo come memoria»), un viaggio tra romanzo, poesia, saggistica, collaborazioni cinematografiche e sceneggiature, con riflessioni sul caso e sul destino, ma anche, riguardo al vero e al falso, con giudizi icastici sull’infelicità del mondo attuale. Perché, disse con forza, «il neoliberalismo che dagli anni ’70 in poi ha portato alla globalizzazione ha prodotto rabbia e frustrazione in milioni di persone con i ricchi sempre più ricchi e le povertà sempre maggiori, e anche la carica di odio e di violenza dilagante con i Trump (con la moglie Siri e altri scrittori Auster aveva fondato il gruppo “Scrittori contro Trump” poi diventato “Scrittori per un’elezione democratica”), le Le Pen, i Bolsonaro, i Putin», che muovono come pedine tante vite nelle cui angosce, nevrosi, solitudini, cadute quotidiane, nel cui indicibile mistero lo scrittore scavava dilatando la parola, dal libro cult «Trilogia di New York» a «La musica del caso», da «Leviatano» a «Il libro delle illusioni”, da «Invisibile», al ponderoso «4 3 2 1», solo per citare alcuni dei suoi capolavori. E a proposito di casualità del “destino”, fu proprio con «Invisibile» in mano che in conclusione di quell’incontro mi avvicinai ad Auster per un autografo, superando il cordone umano deciso a tenere lontano dallo scrittore me come altri, ma allentatosi grazie alla sua gentile disponibilità. Così, mentre mi chiedeva il nome guardandomi con i suoi grandi occhi con cui aveva incontrato e raccontato il mondo, lo scriveva a grandi lettere insieme alla sua inconfondibile firma. Probabilmente era già malato, eppure doveva avvertire come cosa straordinaria essere lì, «sentire i piedi a terra, i polmoni che si dilatano, sapere che muovendo un piede dopo l’altro ci si può dirigere dove si vuole. Sentirsi naturalmente e armoniosamente». Cosa che avrebbe confermato la sera seguente al teatro antico di Taormina, entrando in relazione con il pubblico e raccontando che quel che facciamo viaggiando per i luoghi è pensare in modo tale che i nostri pensieri formino un itinerario. E un lungo, geniale, irripetibile itinerario sono stati i suoi romanzi e i suoi saggi che ci hanno accompagnato, mentre vivevamo, a capire la «grammatica dell’esistenza che comprende – come sosteneva – tutte le figure del linguaggio, similitudini, metafore, metonimie, sineddochi». Ricostruirle nella loro essenza era un principio fondamentale, una forma di resistenza per chi come Auster giocava con le parole sin da scolaretto per esaminare già da allora i meccanismi della mente, «rispecchiare una particella del mondo sì come la mente la percepisce, perché come per i significati delle parole, le cose acquistano un senso solo mettendosi in relazione reciproca». «Una vita in parole» (2019) la sua, come recita il titolo di uno dei suoi ultimi libri, in dialogo con Inge Birgitte Siegumfeldt, un luogo di memoria anche questo, tra le sue opere più intimiste, un vagare in se stesso attraverso il suo immaginario letterario. Ma è stato con un romanzo ancora, «Baumgartner» (Einaudi) – uscirà postumo a ottobre «Un paese bagnato di sangue» (Einaudi, traduzione di Cristiana Mennella), un saggio, con le foto di Spencer Ostrander, sull'epidemia di sparatorie di massa negli Usa: un libro che va alle radici dell’ossessione americana per le armi da fuoco – che lo scrittore ci ha lasciato più poveri ma anche più ricchi, un malinconico Auster che, proustianamente consapevole dello sconvolgente dolore della memoria di ciò che è perduto per sempre, attraverso il professore suo personaggio, sembra dire, arreso, come nell’epilogo di «L’invenzione della solitudine»: «È stato. Non sarà mai più».