Non è ancora uno spettacolo, e infatti è stato presentato nel teatro Oscar di Milano come un “work in progress”, una lettura scenica. Nello stesso tempo «Kr70m16-Cutro» è molto di più che uno spettacolo, perché tre attori con quattro leggìi, pur sulla base di un testo ancora in elaborazione, scavano, con l'aria di appena toccare, temi profondi storici e sociali, come sono le grandi tragedie epocali che hanno attraversato e attraversano il mondo, uno stigma al quale l'umanità non sembra in grado di sottrarsi. Saverio La Ruina, con Cecilia Foti e Dario De Luca, suo sodale di “Scena Verticale” di Castrovillari (dove fra poco prenderà il via la Primavera dei teatri=, trova il modo di raccontare, utilizzando la sua leggerezza sempre così densa (da questo punto di vista la sua scrittura è una specie di miracolo), la tragedia del naufragio di Cutro, in cui nel febbraio dell'anno scorso persero la vita 94 migranti, e confrontarla con la Shoah, attraverso la figura quasi mitica del medico ungherese di origine ebraica Ladislao Schwarz, che dopo essere stato internato nel campo di concentramento di Ferramonti, in Calabria, decise di rimanere a Castrovillari. Un tema quantomai scivoloso oggi, quando il pensiero corre anche alla Palestina. Così quella “gara” surreale tra vittime che aleggia in un immaginario cimitero colpisce ancor di più perché potremmo dire che fa il verso alle assurde controversie che dibattiamo in questi mesi, in cui fra Occidente, Arabi, Africani e Asiatici sembra che non tutte le tragedie siano di uguale importanza e non abbiano invece lo stesso denominatore comune fatto di violenza, crudeltà e senso di dominio e, come tali, non debbano essere tutte condannate. Il titolo, «Kr70m16-Cutro», la dice lunga perché quelle sigle, per quanto necessarie, condannano chi è stato un essere umano a un oblio anonimo, senza neppure più il diritto a un'identità. Kr è la sigla di Crotone, 70 è il numero progressivo nel conto delle vittime, m vuol dire maschio, 16 è l'età: questo è il non ricordo. Ecco perché anche così, work in progress per quanto si voglia, siamo già nell'essenza del teatro che non tace e non nasconde, che affronta anche il tema che può apparire più divisivo perché invece vuole unire, vuol portare all'assenza di un'umanità che è una sola, di esseri che sono tutte persone. Uguali nella vita e nella morte. Sembra perfino banale a dirlo, ma il teatro di Saverio La Ruina come sempre non fa sconti a nessuno e propone, senza alcuna prevaricazione, la possibilità di un pensiero diverso, che non sia sempre inutilmente di parte. Sarà anche per la semplicità dei leggìi e della capacità degli attori di spostarsi magistralmente, potremmo dire a mani nude, da un personaggio all'altro, immaginato e da immaginare, ma il palcoscenico, per uno strano fenomeno visivo delle coscienze, non appare più in alto rispetto agli spettatori. Non predica, insomma, ma dialoga, rispetta perché si arrivi al rispetto di tutti. «Abbiamo presentato – dice La Ruina – una fase di lavoro in cui è possibile intravvedere in filigrana la costruzione del testo e dello spettacolo. Come entrare in sala prove in quel momento delicato quando le cose sono in fieri, cominciano a prendere forma, magari ancora fragili, ma interessanti proprio perché mostrano come l’artista costruisce il suo lavoro». Eppure, già così la forma c'è, eccome.