Strano destino quello di Henri de Toulouse-Lautrec (Albi, 1864 – Saint-André-du-Bois, 1901). Popolare, anzi popolarissimo, grazie anche al cinema che ne ha fatto un personaggio, quasi facesse parte di quegli spettacoli che lui raccontava dipingendo; nella nostra memoria visiva presente per la sua bassa statura (una malattia genetica, dovuta al fatto che i genitori, nobili, erano cugini primi, e due incidenti gli provocarono un busto normale sue due gambe da bambino, per un’altezza di soli 1 metro e 52 cm); a un esame superficiale, creatore soprattutto di manifesti e cantore di quel periodo storico francese a cavallo tra Ottocento e Novecento conosciuto come Belle Époque, tanto da apparire sovrastato dalle immagini di ballerine, cantanti, prostitute e grandi bevitori. Una popolarità che però ne ha tramandato più l’immagine da “nanerottolo”, come gli dicevano, che la personalità più autentica e, almeno per il grande pubblico, si è mantenuta lontana dalla sostanza e dalla qualità della sua arte. Quasi che egli sia un personaggio maggiore e un pittore minore. Arriva, quindi, come necessaria la mostra ospitata nel Palazzo Roverella di Rovigo fino al 30 giugno, promossa dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo con il Comune di Rovigo e l’Accademia dei Concordi. L’esposizione, prodotta da Dario Cimorelli Editore (che pubblica il ponderoso e interessante catalogo), è a cura di Jean-David Jumeau-Lafond, Francesco Parisi e Fanny Girard (direttrice del Museo Toulouse-Lautrec di Albi), con la collaborazione di Nicholas Zmelty (sezione manifesti e incisioni). Il risultato, infatti, per certi versi è perfino sorprendente perché restituisce a Toulouse-Lautrec tutto ciò che è di Tolouse-Lautrec, a cominciare dalle sue peculiarità di pittore, senza naturalmente trascurare le sue celebri affiches. Lontano da adesioni a correnti, ma sempre legato alla piena libertà della sua curiosità artistica (molto prima che sociale, come alcuni suoi soggetti potrebbero far pensare), il pittore francese ha attraversato impressionismo, postimpressionismo, naturalismo e perfino simbolismo, tutto riconducendo al suo personale desiderio di raccontare visivamente ciò che vedeva, travisato dal suo sguardo. Perché, appunto, le sue opere sono narrazioni, a volte ricche di un colore che significa movimento, altre quasi monocrome (per non parlare di una sorta di non finito, quasi tendente alla dissoluzione dei corpi, che precede tanta arte a lui posteriore), pronte a sfumare in pensieri lontani. Intendiamoci, non credo che Toulouse-Lautrec sia stato anche alla ricerca cosciente dell’introspezione, piuttosto sembra che i suoi occhi sul mondo e sulle persone che lo abitano – anzi quel mondo particolare di cabaret danzanti parigini, che oggi chiameremmo movida – colgono aspetti lontani, premonizioni e sensazioni, con la tipica sensibilità preveggente di un vero artista, che non può vivere, anche intensamente, la superficialità e la “dannazione” di divertimenti legati a sesso e alcol senza vederne anche il tragico finale. Non dimentichiamo che, negli ultimi anni della sua breve vita, Toulouse-Lautrec, alcolizzato e malato, aveva comunque con sé il senso della morte, nonostante i colori forti dei suoi manifesti. In oltre 200 opere, di cui 60 del pittore di Albi, la mostra racconta anche buona parte della storia artistica di quel periodo, con dipinti, tra gli altri, anche di Picasso (un pastello), di Degas, il grande collega più di ogni altro ammirato da Toulouse-Lautrec, e Giovanni Boldini, di cui è in mostra un insolito (rispetto ai celebri ritratti parigini di signora e ai nudi) «Scène de fête», grande opera d’ambiente al Moulin-Rouge o forse alle Folies-Bergère, in cui ritrae anche se stesso seduto e intento a bere una coppa di champagne. C’è molto altro in questa mostra che non si risparmia, con molti richiami ai locali di Montmartre (dove Toulouse-Lautrec frequentò anche Van Gogh) come la storia del cabaret artistico Chat Noir, dove ci si poteva esibire con il massimo della fantasia e dell’innovazione o, ancora più interessante, quella del gruppo delle Arti incoerenti, il «leggendario movimento, il cui intento era quello di contestare attraverso il riso», non a caso apprezzato da Breton e Duchamp. Solo pochi anni fa sono state riscoperte 18 opere del gruppo, esposte adesso a Rovigo per la prima volta. Fra esse la leggendaria «Combat de nègres pendant la nuit» di Paul Bilhaud, tela completamente nera, considerata la «profezia» delle opere monocrome di Maleviĉ e Klein. Torniamo però a Toulouse-Lautrec, perché qui possiamo capire bene anche la sua tecnica pittorica del tutto originale, raccontata da Fanny Girard: la «pittura a olio diluito nella trementina su cartone». Il risultato è la grande fluidità del segno e l’asciugatura rapida. Così nascono, fra gli altri, il ritratto «MadameBertheBady» o «Femme se frisant» (donna che arriccia i capelli), oltre ai tanti olî, spettacolari e raffinati, fra splendore e decadenza, non meno della celebre grafica, nella cui preparazione – altra curiosità – usava costantemente gli spazzolini da denti che spesso portava con sé nelle tasche delle sue giacche. Sì, un personaggio, ma prima di tutto un grande artista.