Domenica 22 Dicembre 2024

Quelle donne volanti dell’isola svelate dalla scrittrice palmese Marta Lamalfa

Il fascino archetipico dell’isola, un grumo di roccia vulcanica gettato nel mare come Alicudi, la più lontana delle Eolie, è quel che ha suggestionato Marta Lamalfa (in foto), autrice di «L’isola dove volano le femmine» (Neri Pozza, tra i segnalati della 36ª edizione del Premio Calvino). Un esordio con una storia potente, quello della giovane Marta (classe 1990), calabrese di Palmi, laureata in Lingue mediorientali, musicista e residente a Roma, dove lavora nell’ufficio stampa di un’organizzazione umanitaria. Un romanzo nato per alcune felici coincidenze: il fatto di vedere dalla casa calabrese le isole Eolie (ma non Alicudi), la lettura di studi etnologici su una leggenda isolana di mahare che volano, una storia vera dell’isola e la frequentazione della scuola di scrittura creativa Bottega di Narrazione di Giulio Mozzi e Giorgia Tribuiani, a cui si era candidata con un progetto nato proprio da quelle suggestioni. Sono i primi anni del ’900, nell’isola dove «gli anni si contano coi guai: il tempo del colera, della fame, della tisi, del vaiolo», gli abitanti hanno strane allucinazioni, probabilmente causate, secondo l’antropologo Paolo Lorenzi, da pane ricavato da segale cornuta contaminata da un fungo allucinogeno. E il romanzo segue la storia di una famiglia, in particolare della giovanissima Caterina, che si allarga a una condizione umana e socio-economica arretrata di miseria, di sottomissione e rassegnazione soprattutto femminile. Ma anche di speranza, in un contesto di immobilismo in cui le «femmine che volano» rappresentano un sogno di libertà. Marta, perché un’isola, perché Alicudi? «Le isole sono sempre territori un po’ magici, Alicudi in particolare. Amo le isole Eolie, che sin da bambina erano il mio panorama, il confine del mio mondo. Dal quale tuttavia non potevo vedere Alicudi né Filicudi, e proprio Alicudi mi attraeva, anche perché non c’ero mai stata». Una suggestione diventata un romanzo... «Dopo le prime pagine della prima stesura avevo notato che c’era una voce un po’ diversa rispetto a quello che avevo scritto sino a quel momento, principalmente racconti, mai una cosa così lunga e articolata; era come se sentissi una voce, come se sentissi parlarmi qualcuno dei personaggi». Ad Alicudi ci sei poi andata? «All’inizio ho cercato di capirla da lontano, cercavo immagini, e tra le altre cose mi sono servita dei disegni-bozzetti di fine Ottocento di un arciduca di Toscana, Luigi Salvatore Asburgo Lorena, utilissimi per immaginare la geografia delle isole. Poi, però, mi sono accorta che mancava proprio l’isola, mancava il paesaggio. E perciò sono andata ad Alicudi. A libro finito il volume è raddoppiato perché prima c’erano troppi personaggi in troppo poco spazio e quindi nessuno aveva quello che meritava, come se non avessi dato giustizia a tante storie». Su Alicudi, contemporaneamente al tuo romanzo ci sono state altre pubblicazioni, tra le quali lo studio di un messinese, Tommaso Ragonese, sulla segale cornuta. Secondo te, è l’esotismo geografico-letterario-etnologico dell’isola che attrae? «Effettivamente è un’isola che una volta vista non la dimentichi, lontana com’è da altre isole più “cittadine” come Lipari che allora viveva una sorta di “belle époque”. Alicudi con la sua forma mette un po’ di timore, ma un timore che si vuole scoprire; c’è così tanto mistero attorno a quest’isola in fondo conosciuta da pochi (c’è chi non sa collocarla nelle Eolie) che forse era il momento di parlarne. Una bella coincidenza che ci siano contemporaneamente altre pubblicazioni su Alicudi». Le donne che volano, una leggenda che appartiene all’immaginario dell’isola, sono dunque una metafora della ricerca di libertà. «Sono stata colpita da questi racconti orali, diffusi anche nelle altre isole Eolie, e raccolti dall’antropologa Macrina Marilena Maffei. Queste “streghe” (questo alla fine sono le donne che volano), sono diverse, meno spaventose, disinibite rispetto all’epoca; infatti volavano nude, cantavano, ballavano, potevano vedere altri territori. Non è probabile che questa leggenda fosse legata alle allucinazioni provocate dalla segale cornuta, però forse queste figure nell’immaginario potevano essere custodi dei sogni delle donne e rappresentare le speranze, le aspirazioni nascoste degli abitanti». Ma le allucinazioni ci furono veramente? «Ragonese nel suo saggio sostiene che la causa non è stata la segale, perché dev’essere lavorata per diventare una sostanza psicotropa, però in realtà sulla segale cornuta sin dall’antichità esistono teorie che la legano a fenomeni di stregoneria. Ragonese stesso non smentisce il fatto che ci possano essere state delle allucinazioni in quel periodo, teoria sostenuta dai tanti racconti orali. Lorenzi poi afferma che il fatto che gli abitanti avessero un nome per questo tipo di segale, e cioè le “tizzonare”, come ricordo nel romanzo, per via del colore nero come i tizzoni delle spighe, significa che essa c’era sull’isola. Ma credo che tutto faccia parte del mistero, perciò ancora più interessante». E il personaggio di Caterina com’è nato? Attraverso lei esplori il tema del corpo che può essere gabbia, barriera, ma anche sogno e coscienza di sé. «Caterina è stata la prima immagine che ho avuto: dall’altro lato del mare pensavo a una ragazza che mi guardava e quella ragazza potevo essere io in un diverso contesto storico, in un diverso posto e con una famiglia diversa. E quindi ho cercato di assimilarmi a lei e di calarmi in quella realtà e in quel tempo. Sì, mi incuriosiva molto il tema del corpo, prima di tutto quello delle mahare nude, con la riscoperta di un corpo che al tempo era tabù. E poi quello di Caterina, una ragazza in fase di sviluppo che sta cercando di scoprirsi, pronta per diventare donna. Caterina è attratta ma anche un po’ spaventata dal suo stesso corpo, come dai corpi degli altri nei quali cerca di specchiarsi, dei quali cerca gli abbracci che mancano, il calore fisico che non c’è mai».

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