«Ame piacciono le trame gialle e il meccanismo narrativo che porta al disvelamento della verità. La letteratura, anche quella alta, è sempre un’indagine con al centro il mistero. In questo mio libro ho aggiunto un tema a me molto caro, quello della famiglia, e della stratificazione dei segreti che esistono in tutte le famiglie, compresa la mia».
Il romanzo di cui parla Fausto Vitaliano, calabrese di Olivadi (CZ), milanese per scelta esistenziale, scrittore e autore poliedrico per radio, tv e giornali, sceneggiatore di fumetti e cartoni animati per Disney e Rainbow, è «La via del lupo» (Bompiani) che, dopo la conclusione della trilogia con il disincantato maresciallo Gori Misticò, segna un passaggio narrativo, anche se gli stilemi comico-umoristico-linguistici (compreso l’uso, mai decorativo, del lessico calabrese) sono immutati.
Una Calabria bella e feroce, madre e matrigna, onesta e «’ndrangatusa» («un’isola di bellezza creata da Dio – Vitaliano cita Leonida Repaci – ma in cui il diavolo, invidioso di tanta bellezza, decise di metterci dentro una serie di sofferenze») che è al centro anche di questa nuova “recherche” nella memoria, dolorosa ma necessaria per aprirsi all’amore e salvarsi, attraverso la voce narrante del solitario Americo. «Giallista di scarsa fortuna», per Americo andare a vivere in affitto a Milano in casa dell’anziana e smemorata vedova Agostina e innamorarsi della saggia Siobhan diventa il mezzo per viaggiare a ritroso nella storia della famiglia, percorrere il sentiero «del lupo», per andare al momento «che precede il big bang, quello che precede la nascita di tutto. Dove deve arrivare Americo per capire che uomo è».
Fausto, abbiamo lasciato Gori Misticò ammalato nelle ultime indagini di «Mezzaluna di sabbia»...
«Misticò non nasceva come un personaggio seriale già nelle mie intenzioni, e d’accordo con l’editore aveva un arco narrativo di tre romanzi o quattro al massimo in cui ha detto quel che doveva dire. La trilogia è rimasta nel cuore di molti, però credo che uno dei doveri dell’autore sia di rispettare il patto con il lettore e anche il patto tra l’autore stesso e il personaggio. Non è stato facile allontanarsene, l’ho lasciato in una specie di terra di mezzo in cui non si sa cosa gli sia accaduto, a me piace pensare che se la sia cavata: se lo merita».
Mentre Misticò torna in Calabria, Americo va a Milano. Che personaggio è Americo?
«Per certi versi simile a Misticò, perché anche lui soffre della mancanza di radici e al tempo stesso del desiderio di averne. Strappato in un certo senso anche lui dalla sua terra come tanti altri calabresi che sono stati trapiantati da qualche altra parte del mondo, me compreso, però non traduce questo allontanamento con il languore che ha Misticò. Americo non soffre di questa nostalgia per la terra perché pensa che la sua terra lo abbia respinto. Fa una sovrapposizione, se così possiamo dire, tra la sua vicenda familiare, tra la storia di sua madre e la Calabria».
E infatti Verena, madre di Americo, bella e misteriosa, vittima e colpevole, è la metafora della Calabria, come tu stesso scrivi.
«È così. Nei miei libri ho sempre messo un canto d’amore per la mia terra; io sono felice di essere calabrese così come lo sono di vivere a Milano. Milano è la mia città, dico sempre, ma la Calabria è la mia terra. Però in questo libro c’è anche l’altro aspetto del mio sentimento verso la mia terra, non di rancore, sarebbe eccessivo, ma di un po’ di risentimento che si rinnova soprattutto quando si ritorna anche per breve tempo, come capita spesso a me. Anche se non è stata la Calabria certamente a cacciarci, noi siamo stati costretti ad andare via».
Questo romanzo è un romanzo sulla famiglia. C’è la famiglia biologica che può essere feroce o distratta, e poi c’è la famiglia che si sceglie o ti capita per caso che ti apre all’amore.
«Sì, ed è anche una riflessione su come la memoria, oltre all’amore, ci può da una parte salvare e dall’altra dannare. Come per Agostina, un personaggio che amo tantissimo, un’anziana signora che sta perdendo la memoria di sé e delle persone che le hanno voluto bene, per una delle malattie più sleali che possano capitare. Ma lei non vuole andarsene via da questo mondo avendo perso la memoria dell’uomo che ha amato e dall’altra parte Americo la sua memoria la vorrebbe perdere. E invece Agostina gli fa capire che attraverso la memoria si recupera l’amore e attraverso l’amore ci si salva, non ci sono altre possibilità per tutti noi».
Tante sono le storie trasversali di questo libro, ma qual è il filo rosso che le tiene?
«Il filo rosso è la domanda: noi vogliamo sapere chi siamo stati e cosa è stata la nostra vita oppure ci accontentiamo del racconto di ciò che è stato? Tutto qui, non c’è una risposta giusta, si tratta di scegliere. Americo per tutto un pezzo del libro sceglie di non sapere, però quando incontra Siobhan, messo con le spalle al muro perché lei altrimenti non saprebbe che farsene di lui, decide di sapere o almeno di andare a cercare una risposta».
Proprio a Siobhan fai dire che i libri non sono poi tanto diversi da un noto gioco dell’enigmistica: si tratta di riempire gli spazi vuoti.
«Il giallista bravo costruisce un reticolo di punti da unire oppure di spazi da annerire e l’ultimo spazio te lo farà annerire proprio all’ultima pagina. La metafora che usa Siobhan è che la vita più o meno funziona allo stesso modo: è come uno spazio bianco in cui ci sono delle caselle da annerire, ma qualcosa salta sempre fuori. Noi sappiamo di noi delle cose, altre crediamo di saperle e altre ce le hanno raccontate. Sta a noi mettere insieme tutti questi racconti e creare la nostra narrazione, quella che ci sembra più soddisfacente e che non necessariamente deve avere un’aderenza con la verità. Più importante è la lealtà, che Americo deve recuperare; lui che pensa di essere innocente e che le colpe sono di quelli che lo circondano, scopre che non è così, le colpe le ha anche lui, come noi tutti».
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