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'Santi e bevitori': il “viaggio alcolico” di Lawrence Osborne e lo scontro di civiltà

Madonna come scrive Lawrence Osborne. Non si riesce a trovare un motivo per non amarlo. La sua scrittura riesce non solo coinvolgente, ma oserei dire commovente per l’affilata efficacia della sua intelligenza. Quanto Calvino ha scritto nei confronti di alcuni suoi scrittori preferiti, come Borges, Nabokov e Kawabata, si potrebbe ripetere testualmente anche per Osborne: contrappone l’ordine della mente alla complessità del mondo.
Ormai, negli anni, è andata consolidandosi la sua doppia natura di scrittore: romanziere dunque (da «La ballata di un piccolo giocatore» a «Nella polvere»), ma anche autore di reportage (da «Il turista nudo» a «Bangkok»). A questa seconda categoria appartiene «Santi e bevitori», libro (del 2013) appena dato alle stampe in Italia, nella traduzione di Mariagrazia Gini, da Adelphi, editore a cui si deve la meritoria pubblicazione di tutte le opere di Osborne. Il sottotitolo del libro fa apparire subito evidente qual è l’obiettivo dell’autore: «Un viaggio alcolico in terre astemie». L’avventuroso reportage di Osborne avviene infatti nel mondo islamico in modo da esaminare accuratamente «come vivono gli astemi e scoprire se da loro si può imparare qualcosa».
È un vero e proprio scontro fra civiltà quello che Osborne farà vivere a noi lettori, nel mettere in evidenza la contrapposizione, attraverso l’alcol, tra Oriente e Occidente, contrapposizione che altro non è che il «riflesso di due approcci diametralmente opposti alla vita». Astemi e bevitori quindi «per sempre affiancati in uno spirito di reciproca incomprensione», paladini di paradossali valori contrastanti come temperanza e sregolatezza, continenza e dissolutezza.
Ecco allora Osborne a caccia di una birra a Surakarta, presidio indonesiano di al-Qaida, dove un gruppo di studenti vestiti di bianco, all’ombra di un ritratto di Osama bin Laden, cercherà di convincere lo scrittore che l’alcol è «una malattia dell’anima». Ma al confine con la Siria se la vedrà proprio brutta, quando decide di sorbire una birra all’interno di una trattoria dove a un tavolo è seduto un pezzo grosso di Hezbollah circondato da truci guardie del corpo: «Gli occhi sono tutti puntati sulla latina spumeggiante con una sorta di pietà coriacea, come se io e la mia birra non esistessimo sul serio». Oppure in Libano – dov’è concesso bere senza fanatismi di sorta che lo impediscano – nella Beqa’, dove i produttori del Domaine des Tourelles aprono per Osborne una bottiglia di Brun, da molti considerato il miglior Arak del Medio Oriente. Nel berlo, Osborne considera come un distillato possa farti sentire «fuori dal tempo, senza però oscurare il passato»: «Emerge un certo distacco – spiega Osborne bevendo il Brun – una rigenerante impressione di distanza da noi stessi». E più avanti lo scrittore inglese aggiunge: «Viene dalla distilleria più antica del paese. Berlo non è un atto frivolo né superficiale. È come entrare in una chiesa».
A Mascate, il lettore si appassionerà nel seguire Osborne che, per brindare al nuovo anno, racconta come possa diventare improba e avventurosa la ricerca di una bottiglia di champagne, il tutto mentre, come se non bastasse, «la sua vita di coppia sperimenta impreviste dinamiche dettate dalla sobrietà forzata». Ma l’impresa più coraggiosa è quella che Osborne compie a Islamabad, dove il nostro scrittore si lancerà in una sconsiderata avventura culturale: ubriacarsi «in uno dei paesi più pericolosi e ostili all’alcol della terra». «Perché in fondo – chiosa Osborne – l’alcol siamo noi, la nostra vera natura che si manifesta. Reprimerlo è reprimere qualcosa che sappiamo di noi, ma che non siamo in grado di esaltare e neanche di accettare. È come avere un compagno di ballo a cui non ci sentiamo di affidare il portafoglio». Non so se.

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