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Ninni Bruschetta, la parola e la "scuola del silenzio"

L'attore e regista Ninni Bruschetta

Regista, attore (di teatro, cinema e serie tv), cantante, saggista e adesso anche narratore. Ninni Bruschetta, messinese più poliedrico che mai, 62 anni, sorprende con il suo primo romanzo, «La scuola del silenzio» (HarperCollins). Ambientata in una città sulla costa della Sicilia Orientale, che assomiglia troppo a Messina per non esserlo davvero, la storia – scritta in prima persona – si snoda in due momenti temporali diversi, fin troppo evidentemente legati a periodi della vita del suo autore.

Il primo è quello dell’esperienza di obiettore di coscienza in un istituto per sordomuti, e Bruschetta lo è stato negli anni Ottanta (la topografia descritta nel romanzo è perfettamente aderente all’istituto Cristo Re); il secondo racconta il protagonista impegnato come direttore artistico nella sua città d’origine (e Bruschetta ha ricoperto due volte questo incarico nell’Ente Teatro di Messina, dal 1996 al 1999 e dal 2014 al 2016).
Insomma, un romanzo fotocopia della vita del suo autore? Sì e no, anche perché nelle pagine il protagonista, pieno di ideali e forse anche di illusioni, non riesce a mettere in scena il suo “Amleto”, mentre nella vita vera Bruschetta, pragmatico quanto basta per non rinunciare alla sua “missione” artistica, nella sua città ha messo in scena “Amleto” e tanto altro, sempre con successo.
Ne “La scuola del silenzio” (titolo riferito ai sordomuti, ma anche a certe “congiure”, possibili nei teatri, dove tutti sanno tutto tranne il diretto interessato) la narrazione scorre veloce, ricca di fatti, sensazioni e sentimenti, seguendo una trama che si tinge di giallo tra i sordomuti e di grigio opaco nei corridoi del teatro. Mentre la città sul mare rimane immutabile nella sua bellezza che non cede neppure alle brutture di cui è capace una parte, solo una parte, della sua gente. E quindi: Messina o no? Antonio nella celebre orazione funebre del “Giulio Cesare” di Shakespeare (caso di psicologia inversa e una delle regie più interessanti nella carriera di Bruschetta) parla solo di “uomini d’onore”, più o meno come fa l’autore che addirittura si porta avanti: «In un luogo imprecisato sulla costa della Sicilia Orientale», facendo chiaramente (?) intendere che non si tratta di Messina o forse anche no, un po’ come, tanto per rimanere in teatro, è impossibile stabilire chi sia il pazzo tra la signora Frola e il signor Ponza, suo genero, nel “Così è (se vi pare)” di Pirandello, anche se in questo caso non si tratta di un autore frequentato dal nostro neo narratore.

Nella conversazione che ho avuto con Bruschetta – che del romanzo parlerà il 29 luglio (ore 18.30) a Villa Rosa (Serri di Ganzirri) in un «Duetto letterario» con la scrittrice Nadia Terranova per «Scintille dello Stretto», stagione del decennale della Casa della Musica e delle Arti «Giuseppe e Rosa Uccello» – siamo partiti proprio da questo punto.

Continui a non identificare la città e i personaggi del tuo romanzo, ma per me che sono di Messina, alcuni di loro – parlo dell’ambiente teatrale – è come se avessero la carta d’identità a vista. Come la mettiamo, forse tra Frola e Ponza il pazzo sono io?
«No, fonte della fantasia è sempre la realtà. Se raccontiamo una storia è una storia nostra perché, come diceva Truffaut, l’unico argomento che conosciamo veramente siamo noi. Chi, come te, è di Messina e ha sempre lavorato nell’ambiente del teatro, è portato da alcuni particolari a un’identificazione. Ma se decontestualizziamo da un ambiente locale legato a certe situazioni, che al massimo può essere di 350 persone, ecco che allora i personaggi diventano letterari. E non solo cattivi, direi».
Spiega.
«Non esiste un personaggio totalmente negativo o totalmente positivo e, comunque, i personaggi negativi sono quelli che fanno la storia della letteratura. Il personaggio del commissario del teatro, che spicca per intelligenza, rappresenta la potenza distruttiva dell’uso della burocrazia in modo mirato. E, allontanandoci dallo Stretto, quando ho presentato il libro a Milano, un giornalista ha detto che nelle pagine aveva ritrovato il mondo teatrale della sua provincia».
Certo, Messina o città non identificata che sia, il teatro non sta bene in tutta Italia.
«Altrove è perfino peggio. Ho lavorato per lo Stabile di Catania, che è nato indipendente e non politico, come grande operazione culturale, ma altrove in genere gli Stabili stanno uccidendo il teatro perché producono spettacoli vendibili solo tra di loro e non intercettano più il teatro come fenomeno culturale».
Men che meno un teatro pubblico si può limitare a ospitare spettacoli...
«Ha un senso acquistare spettacoli solo per confrontarsi con altri generi di produzioni per poi fare le proprie, rivolgendosi in gran parte al territorio, dove i privati non sono imprenditori che investono 1 per guadagnare 30, ma piccole strutture, alle quali non mancano le attestazioni di qualità».
Torniamo al tuo romanzo, quali sono i tuoi padri letterari?
«La casa editrice ha citato Sciascia e ne sono onorato, ma io preferisco la letteratura americana moderna per la sua leggerezza. Poi, al contrario, il mio romanzo preferito è “Il soccombente” di Thomas Bernhard, che è proprio diversissimo dal modo di scrivere che ho usato».
Il tuo personaggio è un po’ soccombente, ma tu non lo sei affatto.
«Lo è in confronto della sua terra perché, come faccio io, le dà troppa importanza, cerca sempre approvazione, quasi una pretesa di avere un riscontro da chiunque. Poi, come diceva Gigi Proietti, dobbiamo capire che non possiamo piacere a tutti».
L’esperienza di obiettore a Cristo Re ti ha molto toccato, se nel romanzo l’hai fatta diventare importante quanto il teatro.
«Quando ho chiesto ad Annibale Pavone (attore messinese residente in Toscana, nda) di presentare il libro a Firenze lui mi ha subito ricordato: “Una volta ero venuto a prenderti ai sordomuti perché stavamo provando uno spettacolo e tu mi hai detto: ho lasciato questi ragazzi indifesi”. Questa è una sensazione che ancora mi porto dietro».
In quel tempo facevi il regista teatrale e dicevi che avresti fatto solo quello, a parte qualche incursione nel cinema, e poi giuravi che non avresti mai recitato in teatro. Invece…
«Hai ragione. Ho cominciato casualmente nel cinema perché mentre con Francesco Calogero scrivevamo una scena de “La gentilezza del tocco”, lui mi disse che un certo personaggio avrei dovuto farlo io. Poi ho continuato, mi chiamavano spesso».
Quindi è arrivata la Tv, sempre da caratterista, argomento su cui hai scritto un saggio.
«Quando ho avuto la prima proposta, non volevo accettare e ho chiesto un compenso secondo me sconsiderato. Invece, me lo hanno accordato ed è andata avanti così, senza che io abbia mai fatto nulla per impormi».
E poi la svolta del teatro.
«Non lo volevo assolutamente fare, mi metteva paura. Tutto è cambiato quando ho fatto una diretta televisiva con Michele Santoro. Interpretavo Berlinguer intervistato da lui, era tutto a memoria ovviamente e questa cosa mi ha dato adrenalina e mi ha sbloccato. Poi è stata la musicista messinese Cettina Donato (pianista jazz, compositrice e direttrice d’orchestra, nda) a insistere dopo che avevamo fatto a Radiotre una lettura de “Il mio nome è Caino” di Claudio Fava. Da quello spettacolo sono diventato attore».
Fino addirittura a cantare e incidere un disco, “I Siciliani”, con le poesie del compianto Antonio Caldarella!
«Non conosco la vergogna e non la conosce Cettina che mi ha fatto questa proposta, ma è stata un’esperienza molto dura. Ho ringraziato la mia mamma che da bambino mi aveva fatto studiare pianoforte. Saper leggere la musica mi ha aiutato, ma andare in studio con professionisti di grande livello e sentirti in cuffia mentre reciti e canti è molto complicato. Dopo, farlo live a teatro è diventato facile, anche se occorre “fare” la memoria delle canzoni ogni giorno».

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