Bisogna leggere Domenico Dara. Sono irrinunciabili la sua cifra delicata e potente, le sue storie sempre piene di mondi piccoli e di enormi emozioni, tramate d’un sapere letterario commovente e mai invadente e che ci abitano a lungo, affollandoci di domande ma anche regalandoci quella quiete amorosa che i grandi, i bei libri ispirano. E, qualunque cosa raccontino, sottendono sempre l’amore per la parola, per il narrare puro ma mai sciolto da ciò che ci ha preceduti, come se ogni romanzo fosse tessera d’un mosaico invisibile (e anche questa è parola chiave, per i suoi personaggi). «Liberata» (Feltrinelli) è l’ultimo romanzo di Domenico Dara (dopo i pluripremiati «Breve trattato sulle coincidenze», Nutrimenti, 2014, Beat, 2016; «Appunti di meccanica celeste», Nutrimenti, 2016 e «Malinverno», 2020, Feltrinelli), il più particolare degli scrittori calabresi: pur se la sua statura prescinde da luoghi e collocazioni, la sua appartenenza la troviamo declinata in molti modi, a partire dalla scelta, saporitissima, dei nomi, che sono le parole più “pesanti” e significative, tra quelle che un narratore sceglie per fondare i suoi mondi. Liberata Macrì è una giovanissima dattilografa appassionata di fotoromanzi che vive in un piccolo paese della Calabria negli anni della “strategia della tensione” e della lotta politica più sanguinosa: mondi spariti, quello delle dattilografe, dei fotoromanzi, delle edicole – dove si dispensava addirittura il sapere, con le famose, popolarissime enciclopedie a fascicoli – come centri vivi della comunità. Un paesino dove l’arrivo del “forestiero” è sempre sconvolgimento, mentre la Storia arriva sempre come eco lontana. E Liberata dovrà fare i conti col nuovo che avanza, con l’estraneo che si presenta, abbagliante come un amore, coi legami, e il loro modo di persistere e mutare, con la famiglia e la comunità. Lei possiede un talento specialissimo per “filtrare” ogni cosa attraverso i fotoromanzi che raccoglie e colleziona (e le polaroid che scatta e conserva, altrettante storie che vanno componendosi per inquadrature, attimi sottratti al tempo e fermati): ma non facciamo forse tutti così, coi nostri privati codici e sistemi e linguaggi? Ne abbiamo parlato con l’autore, che sta per intraprendere un giro in Sicilia: sarà giovedì 10 a Modica (Auditorium Piazza Matteotti, alle 19.30, con Chiara Scucces), venerdì 11 a Catania (ore 18.30 libreria Feltrinelli via Etnea con Lorena Spampinato), sabato 12 a Messina alle ore 18 (libreria Feltrinelli, con chi vi scrive). C’è tanto invisibile, nella tua storia, che pure pare così concreta e prosaica, dentro la piccolissima comunità d’un paesino del Sud, dove le zaffate della grande Storia arrivano smorzate e lontane, con protagonisti piccoli e quotidiani: ragazze che leggono fotoromanzi, beghine che frequentano la chiesa, la sonnolenta vita del paese dove ogni forestiero è un brivido di novità. Ma è tutta tramata da quell’invisibile, o dall’infinitesimo che sfugge agli occhi: il pensiero magico, l’immaginazione, i presentimenti e i simboli che ci parlano, ci agiscono. Come in Malinverno, c’è una scrittura invisibile che ci muove, e non lo sappiamo... «I personaggi dei miei libri si confrontano spesso con ciò che non si vede: la vita non sempre offre in maniera lineare ed evidente le risposte che cerchiamo e allora bisogna ricorrere ad altre strategie. C’è altro, al di là di quello che vediamo, un altro che non necessariamente coincide con una divinità: qualcosa che di volta in volta i miei personaggi identificano con il Destino, il Caso, la Natura, la Meccanica Celeste, la Fisica Quantistica; qualcosa di misterioso, di più grande di noi che in qualche modo determina e dirige le nostre esistenze. Liberata ne è profondamente convinta, per questo va alla ricerca di segni, indizi, tracce che le permettano di tracciare una specie di mappa esistenziale per orientarsi nel groviglio delle possibilità e delle scelte. Mi piace pensare, come tutti i personaggi delle mie storie, che esista qualcosa che non vediamo, sia esso l’infinitamente grande o l’infinitamente piccolo». Liberata è audace nella fantasia ma timorosa nella realtà: si iscrive nella fascinosa serie di eroine che vivono splendori nell’immaginazione e sono creature impacciate nella vita quotidiana, ma ci ricorda anche come siamo stati, molte e molti, in una fase della vita. Quella in cui credevamo al potere della nostra immaginazione più che in quello che vedevamo. C’è una grande forza, in Liberata, e forse dovremmo vederla più spesso, questa forza, e riconoscerla a persone e luoghi i cui non ce l’aspettiamo (in questo senso la tua Calabria è esemplare: è piena di energie nascoste, carsiche, insospettabili)? «Un tratto distintivo dei miei personaggi, e quindi anche di Liberata, è una continua scissione tra l’immaginazione e la realtà. In loro questa dicotomia è accentuata, portata quasi ai limiti del parossismo, ma penso tuttavia si tratti di una conflittualità che interessa tutti, indistintamente: spesso la nostra esistenza, se ci facciamo caso, è tesa continuamente a trovare un equilibrio stabile tra quelli che siamo e quelli che vorremmo essere. Alla luce di questa polarizzazione, abbiamo il dovere di fare in modo che le nostre potenzialità possano concretizzarsi per indirizzare le esistenze verso ciò che desideriamo. È un augurio che faccio anche alla mia regione e, con essa, a tutte le regioni che si sono lasciate ingannare da falsi modelli: recuperare la propria autenticità e iniziare un rivoluzionario percorso di riapproppriamento. Ma per percorrere una strada, bisogna sapere dove andare. Ecco, io ho la sensazione che chi ha governato e governa la Calabria non solo non sappia dove andare, ma addirittura continui a sbagliare strada. Fare di questa terra, per esempio, un hub energetico – che significa, in poche parole, violentare e deturpare la sua bellezza naturale per piantarvi pale eoliche in ogni angolo di terra e mare – mi pare l’estremo colpo inferto a un corpo già morente». Nella letteratura, come nei fotoromanzi, «fila tutto. Gli incastri funzionano, le storie che cominciano finiscono, nulla rimane sospeso». E i tuoi romanzi sono meravigliosamente letterari: il gioco di incastri, richiami, risonanze è finissimo, a partire dai nomi, che sono altrettante mappe (anche in Malinverno c’era un preciso, rigoroso lavoro sui nomi). Ma scegli una forma che – pur nutrita d’un lessico che qua e là rivela lucenti preziosismi – sembra semplice: eppure non è un agguato al lettore, piuttosto un invito a giocare assieme. Sei un narratore che ama il lettore, e lo coinvolge a tanti livelli di provocazione e di alleanza. Qual è la tua idea della letteratura, qui e adesso? «Ogni elemento che entra in una storia, anche il particolare apparentemente meno importante, deve avere un qualche significato o funzione. Alla fine tutto si tiene, come un edificio nel quale anche il mattone più piccolo è indispensabile al suo mantenimento. In questa ricerca della stabilità, il linguaggio riveste un ruolo indispensabile, un linguaggio che di volta in volta si modella sulla storia che racconta: in Malinverno, che era un libro sui libri, la lingua era molto letteraria e raffinata; in Liberata, dove protagonisti sono i fotoromanzi, la lingua invece doveva essere semplice, quotidiana, lineare, ma senza scadere nella banalità, e mi auguro che il lettore colga e apprezzi questo sforzo. Nella letteratura c’è tutto e il contrario di tutto. Penso che questa sia la sua grande forza: in essa ognuno può trovare ciò di cui ha bisogno. Io vi ho trovato una vita nuova». Dopotutto, Liberata filtra ogni cosa attraverso le scene dei suoi fotoromanzi, prova a leggerci il mondo. Ma non è forse quello che facciamo coi libri che ci parlano (e tu da narratore ce ne rammenti continuamente il peso e il diletto)? «Aiutarci a leggere il mondo è una delle tante cose che i libri dovrebbero fare. In fondo, la “sindrome di Malinverno” consiste in questo, interpretare il mondo proiettando su di esso il fascino e le suggestioni delle letture. Lo fa anche Liberata con i fotoromanzi: le Polaroid che scatta e ordina in un album sono un modo di crearsi un fotoromanzo della propria vita, di abbattere i confini e divenire essa stessa l’eroina di una trama che si sta scrivendo. Penso che questo sia il regalo più grande che mi hanno fatto i libri: vivere la mia vita come se fosse una storia che si sta scrivendo, e guardarmi intorno con la curiosità di sapere dove mi condurranno le giornate che, come pagine, sfoglio giorno dopo giorno». Tutti e tre i Macrì, Liberata e i suoi genitori, sono “collezionisti”: le loro collezioni (le foto di Liberata, gli insetti del padre meccanico-entomologo, persino i centrini illustrati della madre) ricapitolano il mondo, come se ciascuno tentasse il suo linguaggio, la sua narrazione potenziale (sei sempre stato tentato dal catalogo, dalla vertigine della lista). Come fai tu, scrittore (e stavolta la “microcollezione” che ci proponi è tutta nei titoli dei fotoromanzi per ciascun capitolo). Cerchiamo tutti un linguaggio che ci organizzi il mondo, e lo chiediamo agli artisti? «Il vero collezionista, in fondo, non vorrebbe mai concludere la propria raccolta. Potrebbe sembrare un paradosso, ma è proprio nella ricerca del pezzo mancante e introvabile, il senso di quello che fa. Il collezionista è soprattutto un ordinatore di mondi, un portatore di cosmos nel caos, che probabilmente si illude, nel suo gioco autoreferenziale, di mettere in ordine la propria vita. A un certo punto del romanzo, Liberata pensa che quando siamo confusi e ci sentiamo stranieri alla vita è forse perché semplicemente utilizziamo un linguaggio sbagliato, che non ci appartiene, che allora l’unica soluzione è sapersi inventare un alfabeto. Ognuno deve costruirsi il proprio apparato interpretativo in base a quello che possiede. Il codice di Liberata, per esempio, è diverso da quello di Malinverno o del postino del Breve trattato, e tuttavia tutti e tre sono accomunati dalla volontà di rendere il mondo e il suo mistero più intellegibili. Se la domanda che ci poniamo è uguale per tutti – perché stiamo al mondo – le risposte dipendono dal linguaggio proprio e personale che ognuno elegge». La tua, in fondo, è anche una grande dichiarazione d’amore a un mondo ormai sparito: quello dei fascicoli, delle enciclopedie, dei fotoromanzi. Divulgazione e narrativa che si compravano in edicola (nel piccolo mondo di Liberata l’edicola è un centro vivo di socialità) ed entravano in tutte le case. Un “mondo piccolo” che pure cercava di proiettarsi lontano. Tu racconti spesso i “mondi piccoli”, ma per svelarcene l’illimitata portata intima. È ancora così: i mondi piccoli ci salveranno? «Devo molta della mia vocazione di scrittore all’edicola: cresciuto in un piccolo paese del Sud, che essa era un piccolo paradiso in terra, un distributore di storie e sogni: i fotoromanzi, appunto; i primi numeri dei fascicoli che compravo, solo quelli, perché in offerta; le prime uscite delle collane di libri; i quotidiani invenduti che mi venivano regalati e che valevano un’intera biblioteca. Tra poco le edicole non ci saranno più, come non ci saranno le lettere scritte a mano o i piccoli circhi che giravano i paesi: un mondo che abbiamo conosciuto è sul punto di dissolversi, e probabilmente è giusto così perché il progresso è un continuo ciclo di vita e di morte. Non penso che questi mondi piccoli ci salveranno, per formazione e sentimento sono un fatalista che crede poco nel concetto di salvezza, ma mantengo tuttavia una predilezione per le cose che scompaiono, per ciò che è stato e non è, per tutto ciò che è transitorio e fugace. Come ogni attività umana. Come l’uomo».