Potrebbe essere bello ascoltare in sottofondo un fado, magari il «Fado corrido» della grande Amália Rodrigues mentre si leggono i bei racconti di María Judite de Carvalho, scrittrice, pittrice, traduttrice e redattrice portoghese (Lisbona 1921-1998), già editorialista e caricaturista per diverse testate, vissuta a lungo in Belgio e in Francia, in particolare durante la dittatura di Salazar.
Illuminata a Parigi dal pensiero di grandi come Camus e de Beauvoir, iniziò a interessarsi di un femminismo consapevole che rimettesse in discussione, contro le “certezze” del tempo, le nostre storie di donne. Una ricerca esistenziale confluita nella sua prima raccolta di storie brevi, «Tanta gente, Mariana» del 1959, ora edita da Sellerio nella traduzione di Vincenzo Barca (in copertina riproduzione del dipinto di María Judite de Carvalho), che fa riscoprire questa autrice “dimenticata” benché apprezzata dalla critica in passato e soprattutto sostenuta dal marito, lo scrittore e critico Urbano Tavares Rodrigues, che aveva riconosciuto in lei il talento di scrittrice.
«Tutti siamo soli, Mariana. Soli e con tanta gente intorno. Tanta gente, Mariana», è quel che ripete il padre a Mariana, la protagonista del primo racconto che dà il titolo alla raccolta. Una solitudine che è una condanna ma anche un’assoluzione, nelle parole del padre, che vede la solitudine come una condizione di tutti, scrive Giulia Caminito nella sua bella nota in calce al volume. Ma può bastare? osserva la Caminito, anche lei scrittrice. No, perché ci sono persone più sole di altre, come Mariana, ragazza qualunque che dopo aver sfiorato la buona sorte avendo sposato un giovane brillante e buono, vede svanire tutto e vive l’abbandono: il marito s’innamora di un’altra e dà alla vita quel figlio che lei ha perduto per un aborto spontaneo dopo un incidente. E a trentasei anni Mariana si sente vecchia, inutile, come «liquida e sparpagliata, fiacca, nauseata di me stessa» a tutti invisibile.
Come le altre donne (ma anche altri uomini) dei racconti, Arminda, Clara, Emília, Luísa (e Adérito e Marcelino), personaggi che vedono accadere la vita altrove, vite incolori divorate dall’impossibilità, consumate dal malessere per ogni evento minimo della quotidianità, voci prosciugate dai risentimenti, dal tradimento della vita (e si può essere anche una povera donna tradita da un marito fedele che pur sposata si ritrova sola al mondo), incupite dalla noia, dalla consapevolezza di aver perduto per sempre ciò che poteva essere, l’occasione per, finalmente, vivere.
Mariana è una «donna gomitolo che non ritrova il capo, scrive la Caminito, «vinta dalla “frantumaglia” di cui parla Elena Ferrante ne “I giorni dell’abbandono”». Si parla della condizione femminile degli anni 50/60, in tempi difficili come quelli che viveva il Portogallo, insieme ad altri paesi, ma se è davvero tutto cambiato, si chiede la scrittrice nella nota, perché questi racconti sembrano così attuali? E aggiunge: «Una vita come quella di Mariana, senza lavoro, senza famiglia, anche oggi sarebbe considerata allo sbando, disperata, senza futuro». Disperata, sì, e infatti «ci sono tante cose a cui non pensiamo per mancanza di tempo! – dice Mariana nel raccontare di sé – Alla speranza per esempio, alla speranza…».
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