Sabato 23 Novembre 2024

Messina e la laurea ad Emilio Isgrò: la parola, il primo dei diritti umani

Che le radici, i semi, la Sicilia siano fondamentali per Emilio Isgrò («io sono il frutto di innesti positivi, a cominciare dalla mia famiglia» ripete sempre) il Maestro ce lo dice alla fine della solenne cerimonia che nell’Aula Magna del Rettorato dell’Università degli Studi di Messina lo ha insignito del titolo di dottore honoris causa in Giurisprudenza. Custode della parola, che lui cancella per preservarla dall’uso vano e dall’abuso, il maestro Isgrò afferma: «Le parole contano più dei fatti. Sì, perché dopo di esse se dette al momento giusto seguono i fatti». Ovviamente «la parola onesta alla quale tutti dobbiamo contribuire, e specialmente voi giornalisti, che vi misurate ogni giorno con i social e con notizie che vengono da parte e da ogni lingua; ecco, dovete cercare di allargare lo spazio di comprensione, che valga per tutti, che valga per i giovani. Senza abbandonare mai la linea della ricerca avanzata, seguendo il pensiero libero, quindi niente provincialismi, niente localismi. La Sicilia sta dichiarando la sua voglia di fare e di agire, come Messina in questo momento, anche con questa giornata nella quale io ho dato il mio contributo che spero possa essere positivo. Ma senza campanilismi inutili, perché la Sicilia è una e unica, come l’Italia». Viene alla mente il suo “Cristo cancellatore” (un Cristo giustiziere e al tempo stesso redentore), e lui dice come da un po’ di tempo stia apprezzando le formiche e le api come “cancellatrici”: «Apparentemente coprono il testo sul quale brulicano, tanto che pare impediscano di vederlo, ma in realtà stanno scrivendo un nuovo linguaggio e con la loro laboriosità indefessa vogliono dare un segno di rinascita, di speranza per il futuro». Si dice ottimista Emilio Isgrò, artista plurale nato a Barcellona Pozzo di Gotto, scrittore, giornalista, poeta, drammaturgo, sceneggiatore, che nella sua poetica trova la propria materia, che fa parlare gli oggetti e afferma i diritti umani inalienabili, mentre li “cancella”, perché se ne capisca meglio il valore, perché non siano dimenticati mai. Ecco perché da ieri è dottore in Giurisprudenza, «più giovane – dice ridendo – dei miei colleghi, dato che ho appena cominciato». E così, nella bella cerimonia alla presenza della Rettrice Giovanna Spatari, del direttore generale dell’Università Francesco Bonanno, del direttore del Dipartimento di Giurisprudenza Alessio Lo Giudice, del costituzionalista Giacomo D’Amico, che ha pronunciato la laudatio, del senato accademico e di tanti estimatori, amici, studenti, è diventato un poeta laureato in Giurisprudenza, perché, come ha spiegato in apertura di cerimonia il professor Lo Giudice: «Al centro dell’esperienza artistica vi è la parola con i suoi presupposti, i suoi molteplici significati e anche con il suo non detto, e allo stesso modo il diritto senza parola non può essere. Una parola da affermare, il diritto, per la sua capacità pacificante, per la sua attitudine a creare relazioni e a risolvere conflitti». La rettrice ha sottolineato che «il sapere del maestro Isgrò è l’insieme di tanti saperi, un esempio per i nostri giovani», e lo ha invitato, certa «d’interpretare il desiderio di tutta la comunità», a una mostra all’Università per un'iniziativa congiunta con il Museo e il suo direttore Orazio Micali. Un invito accolto con entusiasmo dal maestro. Di quanto sia pregevole per un ateneo conferire la laurea magistrale ad un artista come Emilio Isgrò, artista internazionale oltre che uno degli esponenti più noti e importanti dell’arte italiana tra XX e XXI secolo, ha detto nella sua laudatio il professor D’Amico, ricordando come sia attualmente l’artista dell’anno alla Galleria Nazionale di Arte Moderna di Roma. Artista sin da bambino, i suoi inizi sono stati di poeta e narratore. Cinquant’anni fa, nel 1973, scriveva «L'avventurosa vita di Emilio Isgrò nelle testimonianze di uomini di stato, scrittori, artisti, parlamentari, attori, parenti, familiari, amici, anonimi cittadini», seguita dall’originale «Autocurriculum» (un libro di incontri e di visioni). Una vita già “avventurosa” che «nel 1964 – ha ricordato D’Amico – aveva avuto una svolta con le sue prime cancellature accompagnate inizialmente dallo scetticismo della critica, con un fraintendimento di fondo che ogni tanto, forse, riemerge qui e là. Ma la cancellatura di Isgrò non è mai espressione di un atteggiamento nichilista. Niente a che vedere con la cancel culture. La cancellatura per il maestro non è soltanto un gesto di malessere sociale, è costruttiva. Nel momento stesso in cui cancella una pagina, e più avanti un’immagine, come ripete sempre, ne costruisce contestualmente altre. La cancellatura è pertanto uno strumento di scrittura, rimuovendo le parole per valorizzarne lo spirito. Non a caso l’attenzione di Isgrò si è spesso rivolta a testi giuridici e la sua opera si interseca significativamente con quella del diritto sollecitando l’attenzione alle parole: il Codice civile e penale, la Costituzione, le leggi razziali (nel 2020 viene presentata l'opera per il progetto Quirinale contemporaneo, in cui Isgrò cancella i “provvedimenti per la difesa della razza italiana” pubblicati nella Gazzetta ufficiale del 1938)». Un’avventura che continua ogni giorno e di cui Isgrò ha parlato nella sua lezione, un veloce e intenso “corso avanzato” sulla libertà della creatività e della parola. Rivendicando alla sua arte di provenire dalla letteratura e di essere nato «nel cuore siciliano di un mare Mediterraneo che aveva cullato le tre religioni monoteiste». Perciò quando da artista e da scrittore si è sentito minacciato ha capito che «la parola (la sola tecnologia a buon mercato perché espressione diretta dell’uomo) andava salvata sul terreno dell’avversario». E cioè con strumenti eminentemente visivi. «Lo avevo capito – ha detto – dopo il mio viaggio negli Usa nel 1963 come inviato del Gazzettino di Venezia al seguito di Kennedy. In mezzo a tutte quelle lingue di ebrei scampati ai pogrom, di contadini calabresi e siciliani, di polacchi e irlandesi, il linguaggio che li univa era quello del cinema e dei fumetti. E poi lo compresi meglio nella Biennale di Venezia del 1964 con l’esplosione della Pop Art. Fu per questo che nel 1964 decisi di cancellare la parola, non per distruggerla ma per rafforzarne il potere espressivo». «Dire che la parola è il primo dei diritti umani – continua – significa mettere i piedi nel piatto dei diritti garantiti in un Paese libero e democratico, significa credere in una legge che sia sempre e per sempre uguale per tutti, per i ricchi e per i poveri, per gli allineati non meno che per gli sbandati dalla miseria».

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