L’opera più celebre, «L’urlo», non c’è (anche se è presente una versione litografica, comunque emozionante): non si vede, ma si sente, perché quel «grido interiore» che dà il titolo alla mostra è forte, lo si ascolta mentre ci si muove da una sala all’altra, non sono più soltanto gli occhi che vedono in un percorso espositivo che sembra realizzare quella sinestesia dei sensi, che era nel programma pittorico di Edvard Munch. Il pittore norvegese (1863 – 1944) è celebrato con una grande retrospettiva (100 opere) promossa da Comune di Milano – Cultura con il patrocinio del Ministero della Cultura e dell’Ambasciata di Norvegia, prodotta da Palazzo Reale (dove rimarrà aperta fino al 26 gennaio, per poi spostarsi a Roma, Palazzo Bonaparte, dal 18 febbraio) e Arthemisia in collaborazione con il Museo Munch di Oslo, che ha prestato le opere, e curata da Patricia G. Berman con Costantino D’Orazio.
«Non dipingo dalla natura – ha scritto infatti Munch – , prendo da essa o mi servo alla sua ricca tavola. Non dipingo ciò che vedo, ma ciò che ho visto». E ancora: «Quando ci si trova in uno stato d’animo intenso, un paesaggio susciterà una certa impressione, raffigurando questo paesaggio si arriva a un’immagine del proprio stato d’animo e questo stato d’animo è la cosa importante. La natura è solo il mezzo». Infine (e poi smetto con le citazioni), è proprio raccontando come era nato «L’urlo» che si completa quel percorso sinestetico e visionario che questa retrospettiva ha il merito di portare in primo piano (attenzione alle sue maiuscole): «… I colori della natura mandavano in pezzi le sue linee. Le linee e i colori risuonavano vibrando. Queste sollecitazioni della Luce non solo facevano vibrare il mio Occhio ma imprimevano altrettante oscillazioni al mio Orecchio, così che io realmente ho udito quell’Urlo. E poi ho dipinto il quadro intitolato “L’urlo”».
Così, lontani dalla sua opera-icona che tutti conosciamo e che ormai siamo abituati a vedere perfino come emoticon, il santino dei nostri tempi, il frastagliato cammino creativo dell’artista ci appare più chiaro nella sua grandiosa complessità, che parte dal lascito dell’impressionismo per approdare al simbolismo e precedere (entrandoci) l’espressionismo. Nei dipinti di Munch c’è la radice di tutto ciò che è venuto dopo, financo del concettualismo e dell’astrattismo: mi riferisco a quell’assenza di contorni nelle cose e nelle persone, oltre a colori “innaturali” e prospettive distorte, che i critici suoi contemporanei consideravano un difetto tecnico (quasi che non fosse capace di definire ciò che dipingeva) e che invece segnalavano l’abbattimento di confini che fossero ridotti solo alla visione dell’occhio. Era il suo grido. Lui pitturava ciò che vedeva la mente, in un’ottica sicuramente legata al periodo storico della nascita della psicoanalisi (ma non ha mai incontrato Freud) e al teatro di Ibsen e Strindberg, ma anche riteneva che potesse essere animata e ascoltata (attraverso le nostre visioni non limitate agli occhi) pure quella parte di natura che ci appare priva di movimento, con ciò precorrendo in parte alcuni dei concetti che la moderna fisica quantistica cerca adesso di dimostrare.
Forse Munch era davvero capace di vedere l’inconscio, aveva una sorta di percezione diversificata dei suoi sensi, che ha cercato di narrare nelle sue opere, puntando a rendere visibile l’invisibile. Era dunque un pittore-ricercatore, non solo nello stretto àmbito tecnico del suo lavoro, ma soprattutto della profondità dell’anima. Ed era sicuramente triste, segnato dai lutti familiari (in pochi anni morirono la madre, la sorella maggiore, il padre e il fratello), dalle malattie (dalla tubercolosi alla debolezza nervosa), da un unico amore finito – dopo una lite con la fidanzata Tulla Larsen – con un colpo di pistola, in una circostanza mai ben chiarita, che gli danneggiò irrimediabilmente il dito medio della mano sinistra. Un episodio fondamentale ripreso in molti dipinti in cui Tulla è raffigurata come l’assassina di Marat, la figura della Rivoluzione francese in cui l’artista aveva sublimato la propria, considerandosi quasi una vittima senza scampo.
Tuttavia l’artista era capace anche di commerciare con efficacia la sua produzione, di crearsi in tutta Europa una notorietà che superava le critiche, anzi le utilizzava come “anima del commercio” (fece anche una mostra insieme con Picasso), di essere un divertente e sollecito padrone di casa nella sua proprietà vicino a Oslo, di avere interessi naturisti (con dipinti che sembrano precedere il Futurismo), ma anche per la fotografia e le riprese cinematografiche.
Una figura dalle tante sfaccettature, umane e artistiche, che la mostra, divisa in sette sezioni, ha il merito di raccontare nella sua interezza, con ombre e luci (esaltate dall’allestimento), ma soprattutto con una successione di capolavori, legati a tutti i periodi creativi, che risuonano sonori nella mente proprio per l’evidente connessione con la nostra interiorità: dalla «Bambina malata» alla «Morte di Marat», dall’«Autoritratto all’Inferno» all’altro «Autoritratto tra il letto e l’orologio», dalla «Notte stellata» ai dipinti per il Fregio all’Università di Oslo.
Ben indagato è anche il poco conosciuto rapporto di Munch con l’Italia, visitata più volte, da Roma (con grande ammirazione per Raffaello) a Venezia, dalla Toscana al lago di Como. Qui, al confine di Mendrisio, nel 1900 gli capitò di essere fermato dalla polizia svizzera perché sospettato di essere l’anarchico che aveva ucciso il re d’Italia Umberto I. In realtà l’assassino era stato già arrestato, ma le guardie della frontiera avevano trovato “strano” quell’uomo alto, smunto, dallo sguardo indagatore e poco incline al contatto immediato con la realtà. Poteva essere un omicida, invece era un genio.
Un Munch da urlo, e senza «L’urlo». La grande retrospettiva a Milano
È sempre «grido interiore»: in mostra tutta la grandiosa complessità d’un genio
Caricamento commenti
Commenta la notizia