«Ti voglio bene». Per dire «voglio il tuo bene», al di sopra di tutto. Ma quale bene può essere maggiore della libertà di autodeterminarsi? La dichiarazione d’affetto, nell’ambito delle relazioni sentimentali, implica altresì uno specifico impegno ad agire in favore dell’altro. Teoria e prassi, tuttavia, possono non trovare reciproca rispondenza se specifiche variabili intervenienti modificano i significati di base del bene, sacrificando la fondamentale componente altruistica all’imperante bisogno di nutrire un sé immaturo e fragile che non riesce a concepire un amore diverso da quello rivolto alla soddisfazione delle esigenze soggettive, veicolate da richieste e pretese che ignorano l’aspetto di reciprocità nei rapporti umani. All’interno di una tale dinamica, la più elementare empatia verso l’altro non trova spazi d’espressione, in quanto strettamente correlata alla capacità di concepire un’alterità separata dalla propria soggettività. In occasione della Giornata Internazionale per l’Eliminazione della Violenza contro la Donna, che ricorre domani, una riflessione sul concetto di bene e di amore sorge spontanea; ma il consueto sguardo alla cronaca conferma dati allarmanti, sebbene in leggero calo – almeno fino ad oggi – rispetto allo scorso anno (100 finora le vittime di femminicidio nel 2024, contro le 117 del 2023 secondo l’Istat). Ma rimane alto il numero delle violenze sessuali (3000 nel corso del primo semestre dell’anno), dato che attesta il clamoroso fallimento delle cosiddette “società civilizzate” e delle agenzie educative per eccellenza, soprattutto in relazione al più recente fenomeno dei femminicidi in giovane età.
Dal delitto di Giulia Cecchettin a quello della tredicenne Aurora Tili, buttata giù dal settimo piano dal fidanzatino, è un crescendo di violenza tra i più giovani; un virus che sembra aver contagiato le loro menti iniettando pregiudizi e stereotipi sessisti, forti di una visione distorta del potere maschile che ricalca vecchi schemi patriarcali, mai sconfitti del tutto. L’ultimo rapporto Eurispes, basato su dati forniti dalla Direzione Centrale della Polizia Criminale, in collaborazione con l’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza, già nel 2023 attestava che le donne vittime di atti persecutori nel 34% dei casi hanno meno di 34 anni; di queste il 3% ha meno di 13 anni, il 7% tra i 14 e 17 anni, il 29% ha 18-24 anni, e infine il 61% tra i 25 e i 34 anni. Per quanto riguarda invece gli autori degli atti persecutori o violenti, il 20% ha meno di 34 anni, di cui il 70% tra i 25 e i 34 anni. Numeri di un’epidemia annunciata, non meno distruttiva di quella da Covid-19. Il suo vaccino non si trova però in provetta, e richiede uno sforzo corale, un serio impegno sul campo, istituzionale e del singolo, dai microsistemi sociali fino a quelli collettivi più ampi.
Ma come fare? E da dove partire? Un ipotetico identikit del giovane autore di femminicidio potrebbe aiutare a capire specifiche dinamiche intrapsichiche a sostegno della prevenzione. Fondamentale a tal scopo la distinzione tra femminicida adulto e giovane carnefice. La tipologia adulta corrisponde al classico «narcisista patologico manipolatore», vero genio del male, arguto pianificatore di una precisa strategia di conquista che consiste nell’attirare la vittima, legarla a sé con atteggiamenti da vero gentiluomo, salvo poi operare un voltafaccia improvviso e crudele, una volta certo del suo innamoramento. L’isolamento e il controllo diventano armi privilegiate di un comportamento persecutorio che ha come obiettivo il totale asservimento della donna al suo volere, per passare infine al delitto al primo evidente cenno di consapevolezza o ribellione.
Gelosia e possesso sono i corollari della sua azione criminosa; soprattutto le accuse rivolte alla vittima vanno oltre il suo presente, concentrandosi ossessivamente sul passato, tempo che sfugge al suo controllo maniacale, ma è parte fondante dell’identità della vittima, che viene costantemente svilita al punto da non riconoscersi nella sua storia. «Non è più lei, è cambiata», dicono spesso amici e congiunti. Quale annientamento può essere infatti peggiore della perdita d’identità?
L’identikit del giovane femminicida rimanda invece l’immagine di una persona rivolta al suo passato, percependo il futuro come una minaccia, un autentico incubo. Nell’affannosa ricerca della personale identità, non riesce spesso a trovare modelli positivi cui ispirarsi, orientandosi così verso la facile assunzione di un’identità negativa, basata sulla forza della prevaricazione. Il giovane violento è quindi un individuo fragile, incapace di concepire un futuro in cui proiettarsi e far agire il sé reale con atti concreti, azioni sul campo, misurandosi con le proprie forze e facendo i conti con possibili vittorie e fallimenti, anche in amore. Il dolore dell’abbandono da parte della persona amata è per chiunque un evento doloroso, a volte lacerante, ma rappresenta un volano di crescita, un’esperienza che insegna a far riferimento alle proprie risorse per stare a galla, superare la ferita e ripartire. Si cresce anche sulle proprie cadute; l’importante è inscriverle in un percorso che abbia come obiettivo l’evoluzione personale.
Il meccanismo interno che porta il giovane verso l’assunzione di un’identità negativa esorcizza invece il dolore perché lo teme, e non accetta la conseguente frustrazione della perdita di controllo sull’altro, identificata con la perdita di potere; soprattutto nel confronto sociale con l’osservatore esterno, col coetaneo che magari ce l’ha fatta. La reazione alla frustrazione induce così il giovane a mettere in campo una forza distruttiva di valenza anche maggiore rispetto alla sofferenza, rivolgendola alla persona che lo ha portato a toccare con mano la sua fondamentale impotenza di fronte al vivere. Rabbia, voglia di rivalsa, odio verso l’amata possono diventare invasivi, sollecitati anche dalla capacità femminile di concepire progettare e obiettivi personali, proiettandosi con forza verso il futuro.
Così è stato per Giulia Cecchettin, colpevole di voler conseguire la laurea prima del fidanzato e pianificare una formazione lontana da lui; diventata, come altre giovani donne, lo specchio che rimanda l’immagine di un fallimento personale. Uno specchio da rompere.
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