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Acqua e terra o la vittoria dolceamara degli sconfitti. L’ultimo romanzo di Dario Franceschini

La potenza del femminile e della luce degli ideali nei tempi oscuri del fascismo

C’è un sentimento corale che anima le pagine di «Aqua e tera» (La Nave di Teseo), quinto romanzo di Dario Franceschini, senatore Pd, ex ministro della Cultura di rara longevità (quattro governi) e, soprattutto, rara “produttività” in quel ruolo. Lo scenario è la sua Ferrara, luogo dell’anima e della memoria che diventa luogo di memoria collettiva, in una narrazione che partecipa della saga familiare e del romanzo storico, ma trovando una sua asciutta cifra di testimonianza ed emozione condivisa.

L’incipit echeggia – ma è un lampo, una suggestione tra le altre, forse un atto di devozione a letture e lezioni molto amate (generazionalmente amate) – un andamento marqueziano, nelle storie di Isauro Callegari, figlio di Nivardo e padre di Milvano (sublime, come sempre, l’onomastica emiliana, che meriterebbe un riconoscimento di bene immateriale Unesco), discendente d’una stirpe di “fiocinini” diventati “scariolanti” alla fine dell’Ottocento: l’innumerevole manodopera che ha, letteralmente, dissodato, bonificato, coltivato, costruito l’Italia, e, nel romanzo di Franceschini (che domani alle 17 sarà alla Feltrinelli di Messina), reso le paludi ferraresi – acqua e terra – campi fertili da coltivare.

A prezzo di fatiche inenarrabili, di morti infinite per malaria, denutrizione, pellagra: la forza che s’impone da subito, nelle pagine del romanzo – fin dall’ipocrita atto di “generosità” del padrone di Nivardo che concede al ragazzo d’alloggiare in «un rudere inabitabile» «in mezzo alle acque putride», dove era certo che sarebbe morto di malattia – è l’ingiustizia. Quell’ingiustizia sociale enorme, flagrante, contro cui si battono i socialisti del tempo, un’epoca aurorale per certe magnifiche lotte che quasi abbiamo dimenticato: l’epoca dei grandi scioperi agrari, delle “leghe” (ahinoi, come possono pervertirsi, certe parole…) di lavoratori.

Milvano vi si getta anima e corpo, in quell’inizio di Novecento che sta incubando rivoluzioni e orrori, enormi speranze e immensi raggiri. Come il fascismo. Nel clima d’odio e violenza – e d’un esasperato vitalismo che di quelli s’alimenta – in cui nascono i “Fasci” nasce anche la storia d’amore tra due donne, una storia scespiriana ma come l’avrebbe potuta raccontare Bassani (citato nel romanzo, che è, anche, una rete di omaggi a figure e personaggi, s’intuisce, molto amati dal narratore, e parte della sua storia ideale e letteraria): Lucia è la figlia di Milvano, fa la domestica e ha un’anima bella; Tina è la figlia d’una ricca famiglia d’entusiasti mussoliniani della prima ora, è una sognatrice e una pioniera, che cerca di fuggire il destino segnato delle donne (ancora di più nel mondo maschilista edificato dai fascisti) e s’entusiasma per le arti “moderne” di fotografia e cinematografia.

C’è un femminile potente a cui Franceschini rende omaggio, anzi sicuro riconoscimento: la figura di Ginisca, moglie di Isauro e matriarca carismatica, s’impone fin dall’inizio: lei, quando parla appassionata di orizzonti di libertà e dignità di lavoratrici e lavoratori, «fa luce con gli occhi»; lei organizza le donne e spinge la nipote Lucia a “liberarsi” – da sola, come dovrebbe essere, con le forze dell’istruzione e della consapevolezza. Sono loro, le donne, il motore immobile della Storia, che pure viaggia sulle camionette dei gendarmi o dei picchiatori, parla in Senato e nelle piazze con la voce degli uomini, parte per le campagne militari sulle gambe dei poveri braccianti e operai diventati poveri soldati e carne da cannone.

C’è una rete di solidarietà femminile che va oltre le vicende individuali ed è una forma di salvezza, una delle poche forme di bellezza in un mondo crudo e ingiusto, e più ancora per le donne: gli ultimi sono sempre le ultime, e lo vediamo persino oggi.
Molte le figure storiche, ma non soltanto quelle più note – un insolito Matteotti in trattoria, don Minzoni, Italo Balbo, Mussolini che fa un discorso al «popolo di Ferrara» – , e questo è il valore politico del romanzo, che fonda una sommessa, ferma epica degli sconfitti (di cui assume in certi dialoghi il dialetto, un ferrarese sapido e rapido, scelta obbligata per ragioni di realismo, ma anche scelta fortemente espressiva) e richiama i nomi e le storie di vittime ed eroi dimenticati (l’autore avverte da subito: «Tutti i fatti narrati sono realmente accaduti, tranne qualcuno»), come Celestina Bergamini o Tullio Zecchi, uccisi dai fascisti; come la maestra Alda Costa, come la giornalista e sindacalista Rina Melli.

Una memoria che dobbiamo condividere, specie in questo momento oscuro in cui il mondo più tecnologizzato e sapiente di sempre sembra volersi consegnare a populisti e fanatici d’ogni credo e latitudine. Le storie – inventate o quasi, vere o quasi – ci servono a rammentare quella luce di Ginisca, quella luce in cui Ginisca credeva. Lei lo chiamava «sol dell’avvenire».

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