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Quanta fame di verità ha il Cigno. L’esordio di un nuovo “investigatore” nel nuovissimo romanzo di Luca Mercadante

Un cronista obeso e sfiduciato, dalla mente acuta e brillante, indaga un mondo brutale

Certo che ha fame, il Cigno. Una fame nera. Cigno, ovvero Domenico Cigno, cronista sportivo campano, ex pugile, obeso e tormentato da una bulimia feroce quasi quanto il bullismo (il body shaming) di cui è oggetto. Il protagonista del nuovissimo romanzo di Luca Mercadante «La fame del Cigno» (Sellerio) sembrerebbe uno dei tanti investigatori della scena letteraria di oggi, di quelli, in particolare, segnati da uno stigma fisico o psicologico, o tutti e due, che tanto più contrastano con l’acume con cui fanno chiarezza nell’oscurità del crimine e del mondo.

E invece no. L’io narrante Cigno – che aveva esordito nella singolare antologia «Animali in giallo» di Sellerio uscita a novembre – smentisce le attese, distrugge (a spallate, o forse a ganci) i cliché, proprio a partire dalla fame. Che inizialmente sembra dominarlo, inchiodarlo a dosi massicce di carboidrati con meccanismi da tossicodipendenza, ma a un certo punto diventa addirittura il suo contrario.

Perché, sin dal nome-antinomia, tutto, in questo bel romanzo perfettamente costruito e che definire soltanto “giallo” sarebbe davvero riduttivo, è giocato su drammatici contrasti. A partire dal luogo, sul litorale campano, zona Castel Volturno, un paradiso convertito in inferno, dove i sogni di sviluppo e benessere si sono mutati in abbandoni, tra villette diventate ruderi o ghetti e ogni metro di terra, spiaggia o canale oggetto di speculazione, sfruttamento e occupazione da parte di mafie, camorre e consorterie.

La sparizione d’una giovane influencer-giornalista e il ritrovamento del cadavere di un’altra giovane donna nera mettono in moto, in un contesto di profondo degrado e scontro sociale, una vicenda complicata e piena di colpi di scena, attraverso cui passa – portando con fatica tutti i suoi pesi materiali e immateriali – l’antieroe bulimico, sconfitto dalla vita e messo ai margini dalla professione, con cui però empatizziamo molto presto.

È un mondo brutale, quello del Cigno, e non solo per le malavite imperanti. L’autore non fa sconti nemmeno al giornalismo (vecchio e nuovo, tra il cartaceo che s’arrabatta, con le sue gerarchie e gelosie, e i social dove ci s’inventa tutti cronisti) e alle istituzioni, attraversati da connivenze, coperture reciproche, odiose trasversalità. E la solitudine del Cigno – il cui adipe è assieme una condanna e una protezione, come la sua fame – è in realtà fittamente popolata.

Il corpo del Cigno è come la terra in cui malamente vive: un corpo infinitamente saccheggiato, riempito e svuotato delle cose sbagliate – allagato e bruciato e costruito abusivamente e demolito e ridestinato e invaso e depredato e aggredito da tutti, amici e nemici – ma abitato sempre da un'umana pietà che commuove, sotto ogni parvenza di cinismo. E allora quel corpo è quel territorio, dove la sopravvivenza è un orrendo affare di lucro per qualcuno, un'afflizione per molti («Abitiamo case che ci ricordano di continuo che non dovremmo essere qui, che faremmo bene a fuggire altrove»).

Ma i sentimenti, per fortuna, ci proteggono sempre, anche quando siamo perduti: i padri e le madri spregevoli (sì, anche quello del Cigno, il Cigno-padre asciutto e granitico almeno quanto il figlio è espanso e empatico) che pure salvano i figli, le famiglie allargate e improbabili, perché i legami li fanno le emozioni, non solo la carne.

Non ultima viene la questione dei bianchi e dei neri, dei nuovi poveri e dei poveri di sempre, che siano taglieggiati dalla camorra o dalla mafia nigeriana, e di quale disperazione sia più disperata, di quale furto di futuro sia più atroce, di quale sfregio dei luoghi e degli uomini sia più sfregiante.

In questo mondo violento e dolente, in alto come in basso, sembra non esserci posto per la dolcezza, che pure esiste, in pieghe nascoste, in gesti fuggevoli, in alcuni pensieri del Cigno, che in effetti è un anatroccolo particolarmente brutto, ma ai nostri occhi, via via che seguiamo i movimenti faticosi del suo enorme corpo e l’agile brillantezza della sua mente, e persino la sua oscura tenerezza rivestita di sarcasmo, diventa un cigno vero. Nero, probabilmente (come ogni cosa che spariglia e sorprende).

È un mondo disperato e perverso, il suo, dove per i più deboli non c’è riparo, ma dove possono disegnarsi imprevedibili catene d’umanità. Una scena su tutte: la stranissima tavolata di Natale che riunisce mondi opposti, nemmeno tra loro pacificati. In cucina, a girare il ragù afro-italiano, c'è una donna nera che è stata chiamata Europa perché fosse un auspicio, ma per lei è stata una tragedia, e il cui soprannome è Mammazia, perché essere madri, essere famiglia è cosa dell'anima e dell'intenzione, non solo del corpo.

Alla fine, oltre la (robusta) trama gialla e le infinite peripezie, interiori ed esteriori, del protagonista vibra, potente, la capacità di Mercadante – classe 1976, al suo terzo libro, menzione speciale al Premio Calvino 2017 – di raccontarci, con la profondità radiografica della narrativa, cose, storie di oggi. Cose che siamo. Allora non importa solo capire chi ha ucciso chi, come in ogni indagine che si rispetti, ma chi ha salvato chi, e quanto ancora può farlo.

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