
I fantasmi non si allontanano mai dal mondo narrativo, e dunque intimo, della scrittrice messinese Nadia Terranova. Arrivano con la brezza della memoria, da un tempo di prima, dal passato più recente o più lontano, lontano anche tre generazioni come nel suo nuovo romanzo, appena uscito per Guanda, «Quello che so di te», una storia intensa che dà ancora del tu ai fantasmi, i propri, quelli familiari e quelli collettivi. E se è sempre la sirena della memoria a richiamare la scrittura della Terranova – con «Addio fantasmi» (2018), che arrivò alla cinquina finalista del Premio Strega 2019, e prima ancora, col romanzo d’esordio, «Gli anni al contrario» (2016), ma anche con «Trema la notte» (2022, tutti pubblicati da Einaudi) – , è nella patria femminile della famiglia e della sua terra d’origine, anch’essa madre e terra di sirene, che la scrittrice cerca e trova gli incantamenti propri della sua cifra narrativa.
Del resto, come si legge in un capitolo del libro, «scrivere è creare un incantesimo, una certezza che viene dal fatto di essere nata su un’isola. Scrivere, però, è anche una profezia, trasformare in memoria un sogno o una visione del futuro». Per farlo, tuttavia, è necessario abbattere il muro di gomma della «Mitologia Familiare», rompere i suoi inganni, attraversare dolorosamente menzogne ed errori (quel che spesso tiene saldi i vincoli familiari), scoprirsi imperfetti a partire da chi ci ha preceduto.
C’è nella scrittura, c’è nella memoria uno strano potere: fanno stare insieme i morti con i vivi, il sogno con la realtà, le immagini del passato con quelle del presente. Così, in questo racconto c’è una mamma, la scrittrice, che, appena partorito, si sporge sulla culla della sua bimba e «guarda giù nel cratere» e in quel momento, «nell’isolamento dell’ospedale» capisce che «non potrà mai più permettersi di impazzire» (c’è «nella maternità uno strano potere», così Virginia Woolf, riportata in esergo).
Sì, perché nel ramo matrilineare della storia della famiglia della scrittrice follia non è un nome astratto, ma corrisponde a un corpo e a un nome di donna: Venera, la bisnonna materna, che quasi cento anni prima fu internata per undici giorni nella Villa di Salute dell’Istituto Mandalari, il manicomio di Messina. La parola «manicomio», scrive la Terranova, è per lei «un’invenzione dentro la scrittura, è qui che la scopre», perché la Mitologia Familiare non l’ha mai pronunciata, preferendo eufemisticamente il cognome del dottor Lorenzo Mandalari come sinonimo dell’ospedale psichiatrico per alienati da lui fondato a fine Ottocento, e come metonimia di chiunque sia «scattiata», «streusa» e cioè manifesti segni di isteria e nevrastenia (la devianza femminile era più nota e frequente soprattutto sotto il regime fascista…).
La memoria, come la scrittura, per la Terranova – il cui ultimo romanzo è scomodare i morti, e così Venera, a dispetto delle reticenze della Mitologia Familiare, si fa avanti sulla soglia di un sogno, preceduta da una mezza parola su di lei lasciata cadere per caso dalla madre quando la scrittrice era bambina. Da quel momento Venera sembra aver vagato come uno spettro nell’inconscio della Terranova, ma è stato dopo la nascita di sua figlia che ha deciso di rimettere in discussione le storie delle donne della sua famiglia.
Tuttavia, «un conto è sognare il passato, un conto andarselo a prendere».
Così, la scrittrice decide di «andarselo a prendere», di indagare e, assieme, di far nascere questo romanzo-quête che, come in un sogno guidato, ora aggrovigliato ora febbrile, ripercorre, con l’aiuto di documenti d’archivio, oscuri strati sotterranei dell’archeologia-Mitologia Familiare. Chi era Venera, sposata a un ex granatiere poi commerciante? Che madre era? E le sue due bambine? E la terza, forse mai nata prima che fosse internata? Qual è stato l’evento che l’ha portata a varcare la soglia del Mandalari? E i padri, gli uomini di questa famiglia che parte hanno avuto? (perché questa è anche una storia di padri).
Venera sembra essere lei stessa a pretendere che si riscriva la sua storia, per far emergere ciò che può essere accettato come verità, perciò diventa il doppio della bisnipote, un fantasma vivo. E quando la scrittrice scopre la sua cartella clinica (riportata nel romanzo) in quello che un tempo fu il Mandalari, Nadia e Venera sono una di fronte all’altra, si guardano negli occhi (e occhi obliqui e tristi, bellissimi, sono quelli dell’immagine fotografica di Isa Marcelli in copertina), si “scambiano” sensi di colpa e paure, condividono silenzi e angosce, inadeguatezze e stanchezze. Un modo per rileggere la propria storia di madre, di figlia e di moglie, e, dunque, di guardare al futuro.
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