
Conflitti interiori e disagio esistenziale, domande senza risposta e ricerca della verità, o soltanto di una possibile via per comprendere la realtà che ci circonda. Nelle due prime nazionali, in queste settimane in scena al Teatro Biondo di Palermo, ci sono temi ed atmosfere che risuonano, grazie alla forza della parola drammaturgica. Un rapporto complesso e mai veramente risolto col padre e, inevitabilmente, con quelle radici da riconoscere e recuperare. E poi l’epopea di una vita, da attraversare grazie ad un racconto denso, che unisce ricordi e sogni, angosce e paure, successi e fallimenti.
«Il male oscuro», romanzo di Giuseppe Berto, pubblicato nel 1964 da Rizzoli dopo esser stato più volte rifiutato e vincitore nel giro di una settimana dei premi Viareggio e Campiello, narra la vicenda autobiografica di uno scrittore in crisi segnato dai sensi di colpa per la morte del padre, attraverso una modalità nuova e personalissima.
Una modalità che, nell’adattamento scenico curato e diretto dal regista Giuseppe Dipasquale, approda per la prima volta in teatro, in prima assoluta al Biondo – dove sarà in scena sino al 9 per poi replicare, dal 14 al 23 febbraio, al Verga di Catania – che lo produce assieme allo Stabile di Catania e a Marche Teatro.
Ad interpretare Berto e il suo profondo tormento interiore è Alessio Vassallo, al suo fianco l’attore messinese Ninni Bruschetta, anche volto amatissimo della tv e del cinema, nel duplice ruolo dello psicanalista e del padre di Bepi, spalla e guida di un’esistenza talvolta senza direzione, e poi Cesare Biondolillo, Lucia Fossi, Luca Iacono, Viviana Lombardo, Consuelo Lupo, Ginevra Pisani, a dare corpo e voce ai molteplici personaggi che affrescano l’esistenza dolente di Bepi.
La riscrittura conserva il sapore fortemente letterario del testo, affidato alla recitazione di Vassallo che si aggira in una scena fatta di cubi che diventano sedute, tavoli e mille altre oggetti, illuminata anche dal riverbero di grandi sipari in plastica trasparente – le scene di Antonio Fiorentino, i costumi di Dora Argento –, per attraversare vicende personali e insieme pagine di storia, grazie al grimaldello della psicoanalisi. Da una parte, infatti, il dialogo con lo psicanalista, figura chiave per indagare un malessere fortemente radicato nel passato e in quel rapporto, mai veramente compreso e risolto col padre, dall’altra i ricordi del passato che, come visioni oniriche, compongono le pagine di una esistenza dolente, per una narrazione che si nutre anche delle accurate musiche di Germano Mazzocchetti e dei movimenti coreografici di Rebecca Murgi.
Dalla provincia veneta alla grande Roma, e ritorno per ritrovare il padre, almeno in punto di morte, e infine nel profondo Sud, dove quelle radici risuonano forti: nel testo, così come sulla scena è intensa la parte del ritorno, Bepi cerca rifugio in Calabria, a Capo Vaticano – quella Casa Berto ancora oggi spazio di cultura che celebra il nome dello scrittore veneto – un posto «da dove si possa guardare la Sicilia, di notte l’altra costa è una lunghissima distesa di lampadine con segnali rossi e bianchi», un miraggio da osservare a da cui lasciarsi cullare.
Un grigio seminterrato, due uomini intenti ad ingannare una strana attesa, uno leggendo, l’altro esplorando uno spazio che pare poco ospitale. Alla sala Strehler invece «Il calapranzi», nel nuovo allestimento diretto da Roberto Rustioni, in scena al Biondo, che lo produce, fino al 9 febbraio. Nella traduzione di Alessandra Serra, con le scene di Valentina Console, le atmosfere noir, fra humor, nonsense e suspense, architettate da Harold Pinter nel suo testo, scritto nel 1957, rappresentato per la prima volta a Londra nel 1960, rivivono nell’interpretazione di Dario Aita (Ben) e Giuseppe Scoditti (Gus).
Due killer confinati in uno squallido e asfittico spazio, attendono istruzioni sul loro prossimo incarico e nel frattempo ricevono strane “ordinazioni” attraverso un montacarichi, il calapranzi appunto. Battuta dopo battuta si delineano i caratteri dei due protagonisti, più risoluto e deciso il primo, timoroso e inquieto l’altro, in un allestimento molto fedele al testo di Pinter, che gioca sul non detto, sui silenzi che aprono squarci nelle angosce e nei timori dei due giovani, che sono poi quelle che attraversano anche il tempo presente.
Piano piano non c’è più spazio per quelle piccole risate iniziali, come se a breve, nello spazio di un’ora, dovesse consumarsi quella resa dei conti, inevitabile, che arriva senza scossoni, metafora di quel disagio che li avvolge.
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