
Con le cancellature va via il significato delle parole? Forse, ma il gesto della cancellatura è di per sé significante in modo autonomo e nello stesso tempo correlato a quel significato originario da cui si è partiti. Quindi è tutto chiaro? No, perché di mezzo c’è sempre il fraintendimento. Sprizza intelligenza, sempre volutamente spiazzante, il nuovo libro di Emilio Isgrò «Io (non) cancello. La mia vita fraintesa» (Solferino Edizioni), scritto insieme con la storica e critica dell’arte Chiara Gatti.
Isgrò, messinese di Barcellona Pozzo di Gotto, classe 1937, narra la sua vita artistica (e non solo), basata sulla cancellatura, una creatività, ormai attiva da sessant’anni, che sembra distruggere e invece crea, che lo ha reso celebre in tutto il mondo dopo anni di perplessità critiche, dovute soprattutto all’impossibilità di classificarlo e in qualche modo di “addomesticarlo” alle leggi non scritte dei giri che contano. E sempre c’è il fraintendimento a star lì per creare equivoci, a far comodo ai denigratori, perplessi tra concettuale e gestuale, tra pittura sì e pittura no. Fino alla loro resa, di fronte a una serie di opere, dalla cancellatura della Costituzione a quelle del debito pubblico e delle leggi razziali e molte altre ancora, che hanno consacrato Isgrò nella storia dell’arte. Fra provocazione, comunicazione e rivoluzione, le caselle in cui si è tentato di inserirlo e che lui non rifiuta, soddisfatto com’è di essere Isgrò.
Annota: «Capivo che scrivevo cancellando, anzi, che cancellando in effetti scrivevo. Adesso per cancellare scrivo e per scrivere cancello». Può sembrare un esercizio retorico e, leggendolo, mi viene in mente il suo sorriso aperto ma sempre un po’ sornione, proprio di chi – dal punto di vista intellettuale – è arrivato comodamente laddove gli altri si devono arrampicare. Invece no, o comunque non è solo questo, perché è soprattutto un pensiero e nasce ogni volta da un rito, come racconta Gatti. Pennello numero uno in mano, «Emilio Isgrò stende il foglio con un palmo. Stappa un vecchio barattolino di uova di lompo che contiene, come un elisir, un inchiostro nero e grasso». E la creazione va avanti.
Così si arriva a quel significante per un nuovo significato (che contiene in parte quello originario), di cui dicevo all’inizio. Come esempio, Isgrò spiega: «Ora evidenzio due o tre parole dell’Inferno e cancello tutto il resto: “Nel mezzo del cammin / fu la paura”». E chiarisce: «Le parole superstiti sono come relitti in mare, ai quali lo spettatore o il lettore si possono aggrappare in cerca di un senso alle cose». Non è dissacrazione, neppure lontanamente, ma la proposta di una via da percorrere per quella che deve essere la funzione dell’arte: rinviare ad altro. «Se l’arte non è capace di rinviare ad altro, al di là di noi stessi e oltre la contingenza, allora siamo spacciati». E occorre aggiungere: non sono solo parole, nelle cancellature c’è una parte visiva, fatta di ritmi e di cadenze, che non può essere sottovalutata.
Il libro, 205 pagine assai godibili, racconta tutte le varie parti della vita dell’artista siciliano, dall’infanzia in una famiglia povera, ma curiosa e orientata alle arti, alla giovinezza in una provincia «colta ma sonnolenta», costellata da tanti incontri vivificanti, come quelli con i concittadini Bartolo Cattafi e Nino Pino Ballotta, e ancora alla partenza per Milano subito dopo il diploma, quando il suo unico piano è quello di fare il poeta (anche questo proposito è diventato realtà, e lui tuttora rivendica le cancellature alla poesia), fino al lavoro come giornalista culturale al “Gazzettino” di Venezia, dove fu ingaggiato dal direttore messinese Giuseppe Longo, e a quello come drammaturgo, cominciato con l’Orestea di Gibellina, scritta in siciliano nel 1982. E ancora, tornando all’arte, l’idea del seme d’arancia che diventa scultura (a Barcellona come a Milano), gli sciami di api e il cammino delle formiche, i pianoforti bianchi, tutte idee che su uno sfondo figurativo, talvolta classico, continuano un cammino concettuale che mi vien da definire come «arte del risveglio», proprio per la sua capacità di rinviare sempre ad altro e quasi “costringere” a pensare. Non manca il recente ricordo della laurea honoris causa in Giurisprudenza, conferitagli dall’Università di Messina.
Tutto il “racconto” si snoda anche in una fitta carrellata di personaggi nazionali e internazionali che ci fanno vivere, anche nelle cose minime, una piccola storia culturale di un tempo che non è più, con personaggi quali Lucio Fontana, Nanni Balestrini e tanti altri. Interessanti le righe dedicate a Piero Manzoni, un artista diverso da Isgrò nello stile di vita, ma sicuramente molto consonante negli aspetti concettuali.
In attesa della prossima tappa annunciata, che sarà la cancellatura del “Don Chisciotte” di Cervantes, è utile e significativo tornare al libro nelle pagine in cui Isgrò racconta la cancellatura del Codice penale, «un codice fascista che, in una prima stesura, ripristinava addirittura la pena di morte. La mia cancellatura ne ha messo in risalto le storture, con sarcasmo. “Il condannato all’ergastolo… può anche essere provvisorio. Chiunque commette una strage è punito… con la libertà. Chi abusa della credulità popolare… ha l’autorizzazione dell’autorità competente”». E quella parola usata da Isgrò, sarcasmo, con il suo amaro predominante, diventa specchio dei tempi.

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