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Il Vangelo dalla parte di Giuda: a Catania il testo inedito di Giuseppe Fava messo in scena dal figlio Claudio

Lui (David Coco), il peccatore umano troppo umano che compie, solo, la vera rivoluzione d’amore professata dal Maestro (Maurizio Marchetti)

"Il vangelo secondo Giuda" (Foto Antonio Parrinello)
"Il vangelo secondo Giuda" (Foto Antonio Parrinello)

Porco Giuda, verrebbe da dire, a pensarci. E lui, Giuda, ci guarderebbe ferito. È un uomo sorprendente e continuamente ferito – continuamente in croce – Giuda, in «Il Vangelo secondo Giuda», spettacolo firmato dai Fava, Giuseppe (di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita) che ha scritto il testo e il figlio Claudio che lo ha adattato e ne ha curato la regia, con grande successo e tutti sold out, per il Teatro Stabile di Catania – e s’avverte l’atto amoroso, la cura che sola, sappiamo, mantiene vivo chi ci ha lasciato.

Un “Vangelo” rovesciato, che ci porta in un presente senza tempo né luogo (viene nominata una «Milano del Sud» che non designa un luogo ma una condizione), e mette in scena, con spregiudicato rispetto e punte di tragica farsa, quelle figure così potenti: il Maestro, direttamente investito dalla luce divina che vuol farsi gesto e parola, i discepoli, Pietro Tommaso Matteo e Giovanni, l’irregolare Maddalena – l’altra Maria – e lui, Giuda, il più innamorato e disperato dei discepoli, il traditore, il capro espiatorio.

Giuda Iscariota fu Lucifero (un appassionato, multiforme David Coco, perfetto nel riassumere, senza un attimo di tregua, con ardore febbrile, l’instancabile, infrangibile fragilità dell’umano) entra in scena come si nasce, strisciando nel mondo, un mondo fatto a scale (le scene sono di Riccardo Cappello) che finiscono nel buio, fatto di ballatoi da cui affacciarsi sul nulla, di facciate che incorniciano il fitto brulicare delle vite (l’espediente del velario consente giochi di luce e prospettiva, ottima opera di Gaetano La Mela: la sintassi delle vite nei palazzoni-dormitori, i trenta denari che piovono, persino un selfie leonardesco dell’Ultima Cena). Giuda ci racconta chi era, chi è sempre stato: un poeta, un cantore e saltimbanco che ci credeva, nella missione di portare bellezza e senso nelle vite. Un sovversivo, a suo modo. Certamente uno sconfitto. Carne da Vangelo.

Elisa è sua moglie (Manuela Ventura, che è anche Maddalena e con carismatica, intensa abilità sdoppia ma riunisce il femminile, conduce tutta quell’altra metà del creato, col suo proprio dolore, in questa storia di maschi che si fanno soggiogare dal divino e s’infrangono nell’umano), non lo capisce eppure gli porta un amore costante e deluso: attenzione, sono i sentimenti umani il cuore del Vangelo secondo Giuda, la capacità di amare contro ogni logica e tornaconto, pure dentro una vicenda assoluta come quella del Maestro, un Maurizio Marchetti, sapiente mattatore, molto bravo a disegnare il filo d’ironia nell’immagine “sacra” eppure casual del Maestro (marcata anche dalla maglietta, diversamente sacra, di Maradona «manodiDio»), che pure non disdegna le miserie del corpo e sembra non accorgersi di quelle dell’anima (altrui), salvo poi, alla fine, con mirabile padronanza di registri, uscire fuori da ogni cornicetta e chiedere a Giuda il necessario sacrificio: sì, in questo Vangelo è Giuda che si sacrifica per noi, anche se è il Maestro che muore circonfuso di santità; è Giuda «il nome da odiare per le promesse che non verranno mantenute, per le rivoluzioni che falliranno». Giuda «uomo libero, e dunque peccatore».

I discepoli, umani troppo umani anche loro, sono argutamente disegnati dalla regia (ed egregiamente interpretati in un afflato collettivo di grande compattezza, che si dimenino sulle note di «Disco Inferno» o si dispongano ieratici dentro un «Dies Irae») come un riassunto di tipi e clichè e debolezze, alcuni segnati anche nel corpo da quell’umanità pervasiva e imperfetta: il Pietro sgarrupato e volenteroso (e lui pure traditore, altroché, prima che il gallo canti) di Antonio Alveario; il Tommaso gobbo e dubitante di Liborio Natali; il Matteo confuso di Alessandro Romano e il Giovanni paraculo di Matteo Ciccioli. Tutti – bravissimi e ispirati – parimenti adoranti e vigliacchi, seguaci e disertori, della stessa sostanza dei giornalisti bugiardi, dei politicanti corrotti e dei costruttori truffaldini (Giovanni, racconta, aveva costruito il Ponte sullo Stretto, «crollato al passaggio del primo treno»: per quello è «diventato missionario e rivoluzionario… per espiare». Eggià).

Alla fine, gli unici atti davvero amorosi – di quell’amore promesso al mondo dalla “rivoluzione” del Maestro sempre invocata e rinviata a ogni aggiustamento, differimento, tradimento – saranno di Elisa e di Giuda, che arriva a concedere al Maestro la “sua” Maddalena (il cui prezzo – indovinate? – sono trenta denari).
Oh sì, il Maestro morirà e sarà composto e pianto, e la sua parola continuerà, rivoluzionaria e sola, ad andare per il mondo. Ma senza i Giuda, e le Maddalene (e i Giuseppe Fava) che portano come stigma il coraggio dell’imperfezione, il coraggio di guardare dentro e oltre le parole, il coraggio di provocare pagando in prima persona, il coraggio di restare nudi e scalzi, nessuna rivoluzione sarà possibile. Mai.

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