
Antonella Cilento, prolifica scrittrice e giornalista napoletana, ideatrice del primo Master di scrittura ed editoria del Sud, in cinquina allo Strega nel 2014, nel paese della scrittura, sin dal suo esordio letterario (molti romanzi fa), porta la sua lussuosa cifra che romanzo dopo romanzo si nutre della sua passione per il mistero, oltre che per il romanzesco puro («non c’è storia che non sia intimamente esoterica», ama ripetere). E anche nel suo ultimo romanzo, «La babilonese» (Bompiani) – proposto da Sandra Petrignani al Premio Strega 2025 e che sarà presentato oggi a Cosenza, alle 17,30, al Museo dei Brettii e degli Enotri, in un incontro dell’Autrice con la giornalista Rosa Cardillo e il critico letterario Antonella Falco, moderato dalla delegata alla Cultura Antonietta Cozza e con le letture di Federica Montanelli e gli interventi musicali del duo di violinisti Apolline Tchorek e Zaira Caridad Vallone – la sua scrittura sempre in espansione riprende e intreccia nomi, personaggi storici e d’invenzione, atmosfere, trame di storia e di arte, che avvicinano il presente a pezzi di passato. Prendendo spunto dalla mostra sugli «Assiri all’ombra del Vesuvio» al Museo Archeologico di Napoli, la Cilento, appassionata di arte, conduce il lettore dall’antica Ninive alla Londra vittoriana, dalla Napoli del Seicento, la sua città multiforme, agli anni Duemila, dalle tavolette cuneiformi alla scrittura digitale. Con una ricchezza espressiva (è una cacciatrice di parole e il suo lavoro sulla lingua è ricercatissimo) che in questo romanzo-museo pieno di colori (e i musei sono luoghi in cui tempo presente e tempo passato si guardano) è anch’essa un tesoro d’arte.
Antonella, dall’antichità assiro mesopotamica agli anni Duemila, attraverso 800 e 600, un andare avanti e indietro nel tempo, in una vertigine di storie.
«“La babilonese” è nata molte volte, come molti sono gli strati narrativi che compongono un romanzo di romanzi: la prima volta avevo sette anni, il rinvenimento da parte di un gruppo di archeologi italiani dell’antica Ebla mi mostrò che gli americani andavano sulla Luna, come dimostrava la foto dell’allunaggio sul mio sussidiario, ma gli italiani viaggiavano nel tempo. La seconda ha coinciso col fallimento di un’azienda di recupero dati: siamo così occupati a esternalizzare ogni nostra memoria che sembra impossibile chiuda un’azienda nata per salvare le nostre memorie, così come gli Assiri non potevano immaginare che i loro immensi archivi sparissero come capiterà al nostro mondo, che pullula di dati e svanisce un po’ ogni giorno. E poi una terza volta è nata grazie a una mostra dove ho visto per la prima volta Libbali, sposa di re Assurbanipal».
Dalla leggendaria Ninive alla Londra vittoriana la babilonese, la donna con la bambina che porta la lanterna, ci interpella. In che modo?
«Libbali s’innamora di un deportato ebreo e per ritorsione lui e tutte le figlie di Libbali vengono uccise. Toccherebbe anche a lei, non fosse per la piccola Yeoudith, figlia del suo amante, che la trascina, armata di lucerna, in una fuga che durerà millenni. Ad ogni ritorno di Libbali, come Albalì, maga babilonese nella Napoli secentesca, con il nome di Madame Ballu nell’Ottocento londinese e napoletano, o come Alice Bilardi ai nostri giorni, corrisponde sempre la presenza della bambina con lanterna, torcia o lucerna, che indica la via: è in Libbali incarnata la forza della vendetta e della passione, mentre in Yeoudith, che porta luce nella morte, la potenza di creazione e speranza. Di queste forze abbiamo gran bisogno, come donne. Ne “La babilonese” è ritratto il femminile che si rialza, che è condannato perché promette vendetta e che, nonostante tutto, ama».
E infatti in questa vertigine di storie la potenza del femminile trionfa...
«Sì, nonostante ogni sforzo per distruggere il femminile, cui spesso le donne collaborano, si deve dirlo, la forza femminile della creazione è inarrestabile: La babilonese è, in fondo, continua resurrezione».
Lei ama cercare nel passato, e in questo romanzo tempi e secoli s’intrecciano. Quale filo li unisce?
«Il passato fa spesso da lente d’ingrandimento del nostro presente: ne “La babilonese” è fotografato il ripetersi del trauma. Quante volte gli stessi eventi si ripetono nella nostra vita, finché non diventiamo consapevoli d’essere artefici di quella ripetizione? E da quante vite, magari, si stanno ripetendo? Il trauma si verifica per 3000 anni finché non se ne esaurisce la memoria, finché l’accettazione non estingue il dolore, così come nella Storia la distruzione si ripete, dalla remota Mesopotamia all’odierno Iraq, perché l’umanità non smette di distruggere. Qui la storia d’amore supera il tempo ma anche l’inganno si rinnova. Siamo capaci di ricordare e imparare o cancelliamo per ripetere gli stessi gesti?».
L’ambito della sua ricerca è spesso la storia dell’arte. Cosa, stavolta, ha richiamato l’immaginario romanzesco?
«Scrivere è sempre stato per me dipingere storie: ne “La babilonese” il 600, le sue ombre, le sue battaglie tornano nella pittura di Aniello Falcone. Poi c’è la fulgente arte mesopotamica riscoperta grazie a Henry Layard. Pittrici e pittori della Napoli fra Masaniello e la grande peste, dove Caravaggio e Ribera furono maestri, sono il fulcro di molte mie pagine come l’arte assira e un omaggio a Bill Viola, che chiude il romanzo».
E ci sono personaggi storici, legati, infatti, al mondo dell’arte, che lei fa rivivere.
«Scelgo sempre figure dimenticate o secondarie e le trasformo del tutto nell’invenzione. Molti personaggi vengono dai libri di storia ma spesso ne sappiamo poco: Layard è stato molto impegnato a raccontare se stesso mentre Falcone scompare nella grande peste. Gli era morta tutta la famiglia prima che compisse cinquant’anni: mi sono sempre chiesta come sia sopravvissuto. Che fossero quattro i suoi veri figli morti come quattro sono le figlie uccise che ho inventato per Libbali è una sincronia, come quelle che Yourcenar raccontava accadessero mentre scriveva. Cerchi qualcosa e qualcosa di più grande ti trova, confermando la tua invenzione».
In un passaggio viene detto a Henry Layard «di stare in guardia dal passato, perché cerca sempre di raggiungerci, non importa quanto andiamo veloci». Allora è tutto un sogno in cui passato, presente e futuro sono la stessa cosa? E la memoria cosa è?
«Siamo in un sogno di un sogno di un sogno: ce lo ricordano Calderon, Shakespeare, Borges e perfino Pasolini in “Cosa sono le nuvole”. Un teatro che si ripete. La memoria è un infinito racconto che muta e che ci illudiamo di fissare. Tutte le foto che scattiamo col cellulare senza mai più guardarle sono la nostra memoria? No. Semmai sono il modo in cui la cancelliamo, eliminiamo la forza dell’esperienza. Il nostro mondo crolla perché cancelliamo l’arte come esperienza e l’esperienza come materia profonda dell’arte».

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