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«Edipo a Colono» o la trasformazione. La seconda tragedia della stagione Inda a Siracusa

Un degno seguito per lo spettacolo messo trionfalmente in scena da Robert Carsen nel 2022

Lo stesso rumore: il ticchettìo d’un bastone che sorregge un passo malfermo. L’«Edipo a Colono» – seconda tragedia del 60. ciclo di rappresentazioni classiche dell’Inda a Siracusa – comincia con lo stesso rumore con cui s’era chiuso l’«Edipo Re», tre anni fa, nella stessa cavea strapiena e ammutolita.

Allora Edipo risaliva lento, sconfitto, gli occhi insanguinati (la Verità acceca, come talora la colpa). Stavolta il percorso è al contrario: Edipo scende verso la scena. Dove c’è, ancora, una scala enorme, uguale e del tutto differente. Il regista (ma conviene chiamarlo demiurgo, è più proprio) è lo stesso: Robert Carsen. L’interprete è lo stesso: l’immenso Giuseppe Sartori.

E forse la parola chiave di questo spettacolo, che pure rimette in gioco i segni più forti dell’indimenticabile allestimento del 2022, è una sola: trasformazione. Junghianamente: come recupero e non dissolvimento dell’ombra, come accettazione di sé, come integrazione e pacificazione. Che è poi, sottilmente, il vero senso etico e religioso del teatro antico come coesione della comunità, rito di purificazione e catarsi collettiva, in cui il “terribile” viene interrogato e affrontato assieme, con lo strumento lucente del logos che incide l’emozione.

La scala brutalista di nudo cemento, simbolo del potere che innalza e sovrasta (la scena è opera anche stavolta di Radu Boruzescu), è diventata declivio verde di salici, lo stesso verde del parco attorno, spazio sacro d’ascesa ed elevazione, casa delle benevole Eumenidi, rovescio luminoso del buio feroce delle Erinni: Carsen ha deciso (non oltre, ma dentro il testo sofocleo) di dare loro voce e movimento (coreografia di Marco Berriel; splendente corifea, come sempre, Elena Polic Greco), fluidi e “verdi” entrambi, in contrasto col coro maschile di abitanti di Colono (capo coro Rosario Tedesco), color pietra calcarea e terracotta, l’umano troppo umano che metterà in scena l’offerta di libagioni e la lotta, la devozione e la violenza. Il sovrano che già avevamo visto nudo (letteralmente, ma anche, come dire, metafisicamente), spogliato d’ogni orpello e autorità, è ora esule logorato dalla vecchiaia e dalla sofferenza, con l’unico sostegno amoroso delle figlie Antigone e Ismene (Fotinì Peluso e Clara Bortolotti, dall’aspra, luminosa tenerezza).

Come il suo Edipo si fa cieco che «vede attraverso la voce», Giuseppe Sartori è voce e testo (testimone) che si fa corpo, in una dedizione-donazione totale alla scena e al pubblico, un offertorio che rimanda a un qualche pasto sacro. Sartori era stato il fiero re e sposo di Giocasta dilaniato dalla verità; adesso, miracolosamente, è il vecchio esule – davvero cieco, con protesi che ne limitano il visus, e con la deformità originaria di Edipo (l’etimo del suo nome: colui che è stato ferito ai piedi) che lo tormenta – vinto ma non sconfitto, con una nuova purezza che s’è scavata in lui, nella sua consapevolezza di colpevole d’innocenza. Non più empio per necessità, ma purificato dal dolore necessario.
Edipo è il centro di tutto, e non solo perché due città se lo contendono: secondo l’oracolo, sarà fortunata e protetta la comunità che ospiterà la sua tomba. E sarà Atene la giusta, non Tebe l’ingrata. L’Atene del nobile Teseo (l’ottimo Massimo Nicolini) il quale dice con nitidezza una cosa molto preziosa (il testo è tradotto, con la consueta perizia elegante, da Francesco Morosi): «Sono cresciuto in esilio, come te... perciò non volterei mai le spalle a uno straniero, non gli negherei mai la mia protezione». Siamo fuori dalla storia e dentro l’umano perenne, ma queste cose brillano, nel nostro presente martoriato in cui gli esuli di ogni luogo sono supplici respinti.

Come, più avanti, quando Teseo e Creonte (ancora, come tre anni fa, Paolo Mazzarelli, perfettamente affilato e ostile, che indossa gli stessi abiti di «Edipo Re»: qui il male è restare fuori dalla trasformazione, inchiodati al passato) si fronteggiano – bianco contro nero, accoglienza contro durezza, etica contro opportunismo – la contesa di potere di sempre non può non farci pensare ad altri uomini in doppiopetto che, oggi, trattano paci armate e terre rare...

E ancora Polinice (Simone Severini), l’ “altra prole” di Edipo – le figlie femmine, donne di pietas, i figli maschi, perduti nell’ingranaggio della lotta per il potere – indosserà un’uniforme da soldato, prima di tornare alla guerra inevitabile, al fratricidio e alla morte: i costumi (opera di Luis Carvalho) qui sono perfette funzioni, ponti di senso.

Restiamo umani, e Edipo, che ha sperimentato dell’umano gli abissi e le vette, adesso, dopo le scale da cui è scivolato giù e le erte che ha scalato da esule, anela alla morte. Ma non come gli eroi guerrieri, in un atto di distruzione magnifica, o come requie dal male, piuttosto per ricomporre la sua unità con la collettività da cui è stato troppe volte bandito, per darsi a quel mondo a cui ha voltato le spalle, essere accolto nell’abbraccio verde della natura e, assieme, del perdono delle dee benefiche. Pacificato.

«Edipo a Colono», ultima tragedia di Sofocle (la scrisse a 90 anni, età incredibile nel mondo antico), rappresentata postuma, non è il marchingegno perfetto di «Edipo Re», eppure Carsen, creatore «per via di levare» ma anche concertatore di grandi affreschi (la sua cifra è perfettamente incarnata da Sartori: comporre e asciugare, finché la parola brilla nuda, restituita in purezza), riesce anche stavolta a distillarne il senso profondo, muovendo emozioni che più volte si traducono in applausi a scena aperta, col pubblico che partecipa a vicende che conosce benissimo come se le stesse scoprendo in quel momento. È il potere di quel palcoscenico sacro e di chi è capace di rinnovare ogni volta la parola che vi risuona.
Si replica, in alternanza con «Elettra» e poi «Lisistrata», fino al 28 giugno.

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