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Coronavirus, rimanere riconoscibili a noi stessi

Guardare, pensare, avventurarci – pure tra mille spettri – oltre noi stessi. Questo ci vien chiesto in queste terribili ore. Di fare un passo oltre le nostre forze e le nostre peggiori immaginazioni. Ci vien chiesto, uniti, di crederci.

Vivendo questa nera stagione non storditi in una apnea reiterata di ora in ora, ma anzi col massimo della coscienza. Non è questione d’affidarsi, sì o no, al Dio cristiano o a una qualche ignota Provvidenza. Ci viene chiesto, in quest’oscuro frangente, dinanzi a un nemico invisibile, crudele e paziente, di farci carico, prima che del virus – nell’Occidente fino a ieri capace di ricchezza e viziato – di quel che siamo: uomini, tutti noi, egualmente vulnerabili, egualmente però straordinari. E fratelli di destino, fin da ogni nascita, come abbiamo troppo a lungo fatto in modo di dimenticare.

In gioco c’è quel che ogni sopravvissuto penserà di se stesso e degli altri dopo: in gioco ci sono gli stessi termini della “condizione umana”. Che è consapevolezza di specie. Ebbene, o ciascuno di noi saprà abbandonare i vec- chi schemi, costruiti a sostegno degli egoismi, o – dopo – potremo buttare l’idea dell’homo sapiens così com’era fino alla pandemia del 2020. Potremo buttare l’idea che avevamo di famiglia, di comunità, di Stato, di Europa, di mondo.

Certo che la pandemia passerà. Farà i suoi morti, devasterà – lo sta già facendo – intere economie, metterà a repentaglio la pace sociale, ma il rischio più grave che corriamo è quello di svegliarci irriconoscibili a noi stessi.

Questo chiediamo a chi tergiversa a Bruxelles, a chi opera a Roma: non c’è tempo, e bisogna creare le condizioni per ché le giovani generazioni, a cominciare da quelle del più vecchio dei continenti, possano rivedere un’alba oltre le loro migliori immaginazioni.

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