C’è un video diventato virale che rappresenta, meglio di qualsiasi discorso, analisi, valutazione e riflessione, l’attuale momento storico. Più di ogni politico, o virologo, o filosofo, o psicologo, o economista o sociologo. Molto di più: un bambino siciliano di 4 o 5 anni. «Io non posso vivere tutta la giornata in casa – comincia a spiegare alla mamma –, metto nella valigia tutto quello che mi serve e mi accompagni dal nonno». E già qui trattiene a stento le lacrime. La mamma gli dice giustamente che non si può uscire. Ed ecco che la voce diventa un misto di pianto a dirotto e di inno alla libertà: «Io non ce la faccio più a stare sempre a casa, a non andare a scuola, a non andare nel parco, a non andare in piscina, a non vedere i miei compagni... Sono stanco, me ne voglio andare da qui». La mamma cerca di consolarlo ed ecco il capolavoro assoluto della più pura innocenza: «Basta, voglio stare un pochino da solo», e va a nascondersi dietro la tenda della sua stanzetta. Perché raccontare questa storia? Perché collegarla a vicende che apparentemente non hanno con essa nulla in comune, come quelle legate all’attraversamento dello Stretto, agli arrivi e alle partenze da e per la Sicilia, al temuto “assalto” di chi si sta preparando per il week-end pasquale? Semplice: perché quel bimbo è il volto allo specchio di un intero Paese, siamo noi, tutti i messinesi e i siciliani che da un mese ormai, assieme (più o meno) al resto del mondo, viviamo in apnea, dentro scatole-contenitori, sfruttando dove possibile le maglie aperte per un’ora d’aria come si fa nelle carceri. Quel “restiamo tutti a casa” nelle prime settimane sembrava anche un invito quasi gioioso. dai, cantiamo dai balconi, riscopriamo le gioie familiari, un buon libro, tante nuove ricette e tutte le serie di film possibili e immaginabili da spararsi dentro gli occhi, tra videolezioni scolastiche e maratone alla playstation. Ma gli arresti domiciliari, a lungo andare, sono sempre una forma di detenzione... Questo è l’indispensabile punto di partenza. Guai a dimenticarlo. Siamo stanchi, nervosi, disperati. Lo siamo più o meno tutti. E quel bambino ci ha dato voce, lui può piangere, noi forse no, ma vorremmo le stesse sue parole, la stessa sua forza in quelle lacrime per urlare al mondo: «Basta, non ce la facciamo, vogliamo riprendere la vita normale». Ma è un lusso che ancora non ci possiamo permettere. E allora ecco che si ripropone, oggi ancor più di ieri, un problema che è, al contempo, di equità sociale e di ordine psicologico. Tutti dobbiamo continuare a fare gli stessi sacrifici. Tutti, nessuno escluso. Al di là dei cavilli burocratici contenuti nei vari Dpcm e ordinanze. Restiamo perplessi davanti ad alcune interpretazioni e sottovalutazioni della vicenda relativa ai passaggi nello Stretto. Che il problema sia stato posto, con la veemenza tipica del personaggio, dal sindaco di Messina Cateno De Luca, ha dato fastidio a qualcuno, e ci sta. Ci si è appellati alle prescrizioni contenute nelle disposizioni statali e regionali. Si è disquisito difendendo il diritto alla mobilità di chi ritiene comunque di avere un motivo per scendere dal resto d’Italia, o d’Europa, e arrivare nell’Isola. Si è assistito a un balletto di rimpallo di responsabilità nei controlli tra le due sponde dello Stretto. Si è innescato un cortocircuito istituzionale, uno scontro tra poteri centrali e locali, culminato con la denuncia per vilipendio intentata dal ministro dell’Interno nei confronti del sindaco “masaniello”. Ma cosa c’è di sbagliato o scandaloso nel sistema di prenotazione online proposto dal sindaco di Messina? Cosa c’è di esagerato in una soluzione così ragionevole che si sarebbe potuto attuare dall’inizio dell’emergenza e che dovrebbe valere anche per tutte le altre vie d’accesso alla Sicilia? E allora sì, che lo dica De Luca o meno, maglie strettissime nello Stretto, finché a tutti gli altri s’impongono limitazioni che violano il sacrosanto diritto alla mobilità e alla vita non da rinchiusi. Tutti sulla stessa barca. Sia chi vive in città sia chi ci arriva col traghetto. Le stesse regole. Gli stessi sacrifici. Almeno finché non potremo cominciare a dire che l’incubo si sta attenuando. Quando forse potremo dire al bimbo del video, «vai nel parco, piccolino, ci sono i tuoi amichetti, c’è tuo nonno che ti aspetta...».