La conta non registra progressi. Troppi “scoiattoli” corrono sul filo e non si può rischiare un flop al quarto e quinto scrutinio. Ma passeranno ancora giorni perché ci sia davvero il passo indietro, anzi... di lato. Quella di ieri potrebbe anche essere letta come la “mossa del cavallo” dello scacchista che, al momento, rinuncia all’arrocco. E Berlusconi ne sarebbe capace. Dei 93 apolidi partitici che emergono dal censimento parlamentare, servirebbe conquistarne almeno 50 per rendere plausibile il gran salto al Quirinale del Cavaliere. Anche Sgarbi, inizialmente ottimista, tira il freno a meno. Provocando l’irritazione del designato numero 2 forzista, Antonio Scajola: «Non è Vittorio il portavoce del Cavaliere», chiosa stizzito. Sottotraccia il lavorìo è febbrile. Gianni Letta insiste perché il “grande amico” non sfidi la sorte e rinunci per tempo; i ministri azzurri a loro volta guardano con diffidenza alla partita; frange centriste non manifestano entusiasmo, tanto più che Pieferdinando Casini nutre niente affatto segrete chance di elezione; il rischio è di ritrovarsi con 420/440 voti a Montecitorio al netto degli endorsement talora imbarazzanti, come quello di Denis Verdini: uno che sta scontando 6 anni e mezzo ai domiciliari, ma che non trova un dentista all’altezza a Firenze e ha ottenuto il permesso dal Tribunale di sorveglianza per recarsi due volte al mese a Roma, dove incrocia vecchie conoscenze e trama.
Un’investitura, se non proprio aperta ma tuttavia intelligibile, dal valore politico quasi dirimente, in realtà Silvio Berlusconi se l’attendeva. È quella che avrebbe dovuto pronunciare Matteo Renzi, che da buon pokerista qual è tiene invece le carte al petto. E tuttavia non manda all’indirizzo di Arcore segnali incoraggianti. Anzi tutt’altro, sebbene si dica disponibile a votare un esponente del centrodestra. In realtà Renzi sta percorrendo un altro sentiero, decisivo per il suo futuro politico, che potrebbe condurlo al rientro nel perimetro progressista. Magari ritagliandosi con Calenda uno spazio oscillatorio al centro. Lo ha già fatto in Sicilia in proiezione elettorale amministrativa. Ma su scala nazionale la contesa si sposta sul campo maggioritario e il Matteo toscano, accreditato di un povero 2% nei sondaggi, non può rischiare di restare fuori da troppe aree geografiche, a partire dal prezioso “Chiantishire”.
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