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Il "sacrificio" di Mattarella, il fallimento della politica

"Quieta non movere", secondo la più raffinata cultura governativa. La rappresentazione indecente della politica italiana, gestita da apprendisti stregoni, ha portato alla soluzione più ovvia e meno conflittuale, ancorché rappresenti una forzatura costituzionale: la richiesta a Mattarella di sacrificarsi per altri 15 mesi, malgrado il trasloco già effettuato, con la conseguenza che Draghi non si muoverà da Palazzo Chigi. E non ci sarà neppure un rimpasto di governo, perché è meglio lasciar le cose come stanno.
E così, dopo sette scrutini e aver bruciato una mezza dozzina di nomi spendibili, mortificata sulla graticola dell'improbabilità la seconda carica dello Stato, adombrato salvifiche soluzioni "rosa" che come tutte le altre si sono arenate sugli scogli dei veti incrociati, il "king maker" del centrodestra, Matteo Salvini, ha virato sulla "preghiera": chiedere a Mattarella di accettare la rielezione al Quirinale. Sbocco condiviso da tutti per uscire dall'impasse, fuorché da Giorgia Meloni, che già pregustava una crisi di governo e un veloce ricorso alle urne. Se ne farà una ragione.
L'accettazione di Mattarella renderà, dunque, felice quasi tutti e si sostanzierà in 900 consensi parlamentari. Un plebiscito. I pentastellati avranno quel che vogliono: il vitalizio che maturerà a ottobre; i fronti governisti e ministeriali della Lega anche, ovvero la gestione dei fondi del Pnrr; le prime linee forziste a loro volta manifesteranno soddisfazione; il Pd di Enrico Letta potrà tirare un sospiro di sollievo; la pattuglia renziana avrà il tempo che le serve per tessere la tela del completo rientro nel perimetro progressista.
Hanno mandato Draghi a chiedere a Mattarella l'ultimo sacrificio in nome del supremo interesse nazionale rappresentato dal mantenimento della stabilità, l'esigenza di scongiurare una grave crisi di sistema: in piena ondata pandemica e con un Piano di rilancio da mettere a terra. E con l'incubo del giudizio delle Borse mondiali che sarebbe arrivato lunedì mattina. Draghi ha lanciato il ponte per conto di leader partitici molti dei quali si sono rivelati tristemente inadeguati rispetto al ruolo loro conferito dalla storia che in Italia, nell'ultimo trentennio, ha generato troppi cortocircuiti. Ciò mentre Pierferdinando Casini, in una conferenza stampa improvvisata, rendeva pubblico il suo passo indietro affinché il Parlamento desse un pieno via libera a Mattarella. Casini, con Amato, stamattina eletto alla presidenza della Corte Costituzionale, era l'ultima carta attorno alla quale si sarebbe potuta trovare una "disperata" convergenza: il campo è stato sgomberato da tentazioni.
Sul terreno restano le macerie di iniziative partitiche suicide, la macchia indelebile sul "cursus honorum" di Elisabetta Casellati, foriera in quota parte di un flop clamoroso.
Si andrà avanti grazie al l'affermazione dello "status quo". Vecchia lezione dorotea gradita a tutti, compresi coloro che avrebbero dovuto aprire il Parlamento come "una scatola di sardine" e che invece si sono dissolti perché intrinsecamente destrutturati.

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