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Speriamo (non) sia femmina. Il merito al di là del genere

La prima elezione presidenziale dell’era post covid più di ogni altra sarà ricordata per l’implacabile, quasi disumano, “impallinamento” dei candidati. E che candidati...
Molto eloquente il richiamo alla metafora contemporanea esemplificata nel metodo “squid game”, dalla discussa serie tv coreana che fa dell’assassinio dei concorrenti la modalità di avanzamento del gioco. E nell’elezione presidenziale 2022 la metodica scelta è stata per l’appunto il posizionamento consecutivo di bersagli sacrificabili, individuati via via nella concitazione dei sei giorni e poi smaltiti rapidamente nell’indifferenziata.
Nel lungo elenco non solo politici di lungo corso, avvezzi alle dinamiche estemporanee dell’alba e del tramonto, ma in particolare figure istituzionali che, a prescindere da chi le incarna nel momento contingente, meritavano maggiore protezione. A partire dalla prima carica dello Stato: quel presidente riapparso quale responsabile successore di se stesso, richiamato dal trasloco in corso per mancanza di alternative, come anche il dilagare dei meme sui social ha sottolineato, dietro l’apparente ilarità. E solo l’essere maiuscolo di Sergio Mattarella ha conferito all’epilogo la forza e la dignità richieste. Proseguendo con la seconda carica dello Stato: la presidente del Senato Elisabetta Maria Alberti Casellati, sacrificata sull’altare dei veti incrociati nel suo corazzato tailleur blu “portafortuna”. Una buona sorte che le ha certamente arriso in termini di coraggio: necessario in quantità industriale per presiedere impassibile, come ha fatto, l’inesorabile scrutinio su se stessa. Per non parlare del presidente del Consiglio in carica Mario Draghi: quasi un jolly buono per tutte le sale ovali, qualora quella del Quirinale fosse rimasta pericolosamente vacante per altrui vacuità.
L’elenco - ovviamente incompleto - degli eminenti liquidati può continuare, ad esempio, con Giuliano Amato, nei medesimi istanti eletto al vertice della Consulta; con Marta Cartabia, ministra della Giustizia e presidente emerita della Corte Costituzionale - forse la sintesi perfetta, oscurata però da altre logiche - e con Elisabetta Belloni, a capo dei servizi segreti, ruolo che le è valso al contempo candidatura e sassaiola.
Ma spicca su tutte un’altra eliminazione illustre: quella della parità di genere. O, meglio, di ciò che si definisce “uguale accesso a risorse e opportunità”. Abbiamo assistito ad uno stucchevole sbandieramento - anzi, ad un destabilizzante sbilanciamento per eccesso - delle “quote rosa” (emblema supremo, statuito per legge, del fallimento di una reale meritocrazia femminile) per ammantare candidature e promesse: “in più è una donna”, “sarà certamente una donna”, “finalmente un (la Crusca direbbe una, ndc) presidente donna”, “per la prima volta una donna al Quirinale”, lanciata sul Colle quasi come Valentina Tereskova nello spazio. Consolante, nel significante e nel significato: abbiamo scelto un nome che finisse in “a”, speriamo sia anche capace, vedremo.

Di parità riparleremo quando nessuna scelta, di un candidato presidente o qualsiasi altra, sarà più enfatizzata perché è “donna” o “uomo”. Quindi speriamo che non sia femmina, e nemmeno maschio. Speriamo che il genere resti sempre quello che è: il complesso dei caratteri distintivi di una categoria, e non la qualifica che porta al Quirinale. O in qualunque altro posto.

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