Superlativo, il Berlusconi d’annata ’94, specie quando propinava agli italiani la terribile leggenda dei brutti «comunisti che mangiano i bambini». I meno giovani di noi ricordano bene: se Achille Occhetto e il suo Pds avessero vinto le Politiche ci sarebbe stato un serio pericolo per la democrazia. Per questo, così raccontava il Cavaliere, aveva deciso di scendere in campo, espressione nuova in politica che testimoniava uno stile inedito e subdolamente dissacrante. Un appello all’Italia del Palazzo ferita da Tangentopoli, un monito alle fasce più deboli del Paese, stupite dal generalizzato illecito finanziamento ai partiti. Berlusconi venne premiato dalle urne: è nostra opinione che non in molti credettero alla barzelletta dei comunisti cattivi; piacque semmai l’idea dell’uomo di successo che “si butta” in politica: fu, il Cavaliere, un “tecnico” ante litteram. Troppo istrionico per essere percepito come “professore” di qualcosa, ma certamente detentore di taumaturgiche competenze che avrebbero giovato a un Paese allo sbando. Allo stesso modo, oggi, non vediamo all’orizzonte un serio fondato pericolo fascista. Quantomeno la sacrosanta “libertà di parola” su cui, e per fortuna, spesso concionano i più anziani non sembra a rischio. E su questo concorda la gran parte degli italiani (pure Letta e Calenda che sull’altro fronte, intanto, tra Verdi e Sinistra stanno forse pasticciando troppo). E allora? Il problema, qualcuno potrebbe “minimizzare”, è sempre lì: la tasca e una dignitosa “sopravvivenza”, accesso ai diritti – che non vanno garantiti soltanto a parole – e ai servizi. Salute, studio, lavoro, e ciò che sta intorno. Ognuno di noi non solo libero di dire la sua, ma – anche – di poter fare la sua. Il problema, in fondo, è il mondo che vorremmo, ciò che immaginiamo per noi e i nostri figli: ideali – in senso ampio, assoluto persino – e modelli di società. Preferire un presidenzialismo “puro” alla democrazia parlamentare è una scelta; concedere più autonomia alle Regioni, sì che possano gestire le risorse senza darne più tanto conto allo Stato e ai territori tradizionalmente arretrati (non solo per loro colpa...), è una scelta; e la privatizzazione purchessia d’ogni ente che respira, anche questa è una scelta. E in Europa, e nel mondo, dove stare? Con chi stare? Basterebbe già questo per covare una specie di preoccupazione legata alla possibilità che questa destra sovranista vinca le elezioni. Peraltro si capisce poco. Meloni, premier in pectore, è filo-ucraina, atlantista, ma dimostra saltuaria empatia nei confronti dell’ungherese Orbán, riconosciuto campione dell’ultradestra, quella che nega alcuni tra i diritti più elementari. Salvini è ancora più sbilanciato nei rapporti con il “diktátor” di Budapest, gli piace proprio. Un po’ meno di Putin il guerrafondaio, ma comunque sì. Quanto a Marine Le Pen, forse la si lascia tra i “santini” perché un contatto vero, chissà, potrebbe rivelarsi un boomerang. Da Fratelli d’Italia sono arrivati, durante il governo Draghi, cinque «no» al Recovery Fund. Il premier, in scadenza per volontà del M5S di Conte, della Lega e di FI, ha sottolineato, mentre commentava il Decreto Aiuti bis, che l’Italia crescerà più di Francia e Germania – i dati parlano chiaro – grazie al buon lavoro fatto. La credibilità internazionale, cui ha fatto cenno, paga. Ebbene, l’Europa dovrà continuare a fidarsi di noi. Dovesse vincere questa destra, che sarà del Piano nazionale di ripresa e resilienza? Inoltre, al nostro Paese – ricordiamo a(gl)i (e)lettori – “spetterebbero” altri 150 miliardi che Bruxelles dovrebbe darci in quattro anni. Ce ne freghiamo del nostro laicismo e delle “radici giudaico-cristiane” che invece sarebbero rivendicate con enfasi nella bozza di programma congiunto FdI-Lega, dell’identitarismo nostalgico propagandato con la consueta demagogia; ci frega un po’ di più dell’«autonomia differenziata» se penalizzerà il Sud (Meloni la darà vinta a Salvini?); ci frega moltissimo se diverremo, tra spread e rendimenti dei Btp, non... la Grecia ma il Venezuela. In quest’ottica meglio si comprende l’idea, su cui insiste soprattutto il leader leghista, di indicare prima del voto i ministri di un eventuale governo: servirebbe a tranquillizzare Bruxelles. Insomma: se soprattutto Giorgia Meloni dovrà scoprirsi più europeista è meglio che le accada adesso. Una giusta tempistica delle incoerenze faciliterebbe le cose. Senza aspettare che poi arrivi un «no» del Quirinale su un nuovo Paolo Savona. Salvini lo rammenta sicuramente, il 2018: era l’Italia dei 5S e della Lega, e fu Mattarella a tenerci ben avvinghiati all’Europa. (Alessandro Notarstefano)