Ce l’avete presente, quel compagnetto anonimo che nei compiti nero su bianco prende(va) regolarmente 5 e mezzo? Guardato dal basso, era (è) oggetto di tenue invidia per la sua capacità, sempre, di limitare i danni e non naufragare; guardato dall’alto, era (è) oggetto di indulgente indifferenza, per la sua incapacità, sempre, di spiccare il salto.
Ebbene, a torto o a ragione, la “percezione” diffusa nel nostro Paese è che i migliori esponenti della classe politica siano tutt’al più da 5 e mezzo. Quando va bene, quando ad assisterli – nelle giornate meno incolori – ci sia lo Spirito Santo o la fortuna. Sì, è purtroppo evidente a tutte le latitudini parlamentari il grave problema della leadership.
Partiamo dalla grande favorita alle elezioni del 25 settembre, la poliglotta Meloni. In un francese contrappuntato da erre calibrate ad arte, in un inglese a tratti fluido, in uno spagnolo (ci dicono) non esitante, si è rivolta alla stampa estera perché riferisca in patria (parola cara alla signora) e soprattutto a Bruxelles che – con lei premier – l’Europa in guerra con la Russia, e alle prese con la crisi energetica, l’inflazione e il post-pandemia, non correrebbe rischi. Il fascismo è definitivamente archiviato e i neofascisti (altro che... post) italiani sono persone estranee al favoloso mondo di Giorgia. CasaPound e altri nostalgici possono cercare casa altrove: i loro voti non sono graditi. Meloni è atlantista, filo-americana, filo-Nato, condanna l’antisemitismo, non ha sentimenti discriminatori. E odia i tiranni brutali e quei sedicenti dittatorelli, grotteschi ma non per questo meno mostruosi, che di tanto in tanto vanno alla ribalta... e varano leggi razziali.
Vuole Palazzo Chigi, Meloni, e frettolosamente prova a disfarsi della storia da cui proviene, a scansare ciò che “si frappone” tra lei e la poltrona dei suoi sogni: da Ursula von der Leyen a Salvini e Berlusconi. Tenta di rassicurare la prima e mettere in riga gli altri due, inclini a far promesse irrealizzabili e a collezionare autogol – come l’ultimo del leader FI, che ha spiattellato le reali intenzioni della coalizione («se passasse il presidenzialismo») circa Sergio Mattarella, “invitato” a preparare le valigie –. Sta insomma cercando di conservare, Meloni, il credito di cui la destra sovranista sembra godere nel Paese. Non sempre le riesce bene.
Osserviamo l’outsider: Enrico Letta. Ha brigato con il consueto zelo improntato a spirito di servizio. E puntato – “messo alle corde” dal Rosatellum – su un matrimonio serio con Carlo Calenda. È andata male, e i sondaggi non sono esaltanti. Aver conservato l’alleanza con Emma Bonino e l’intesa elettorale con SI-Verdi è poco più che una pia consolazione (e riaprire ai 5S sarebbe un miope imperdonabile harakiri sul piano della coerenza). Ma al Pd, che nella stagione Draghi ha mostrato forte senso di responsabilità nazionale, rimane certamente un compito: fare di tutto perché la destra non riesca a conquistare i due terzi del Parlamento, quella «maggioranza qualificata» che le consentirebbe di mettere mano – lo volesse, e lo vorrebbe (come Berlusconi e i piani FdI svelano) – alla Costituzione.
Soffre, Letta, che pure potrebbe incarnare una flemmaticità parecchio italiana, l’esigenza di declinarsi in modo acceso. Il risultato è uno stile, nella dialettica politica, che appare spesso posticcio, artificioso. Peccato, per il Pd – interprete, anche, di frastagliate importanti battaglie sul fronte dei diritti civili –, che meriterebbe una leadership più strategica e più naturalmente incisiva.
E siamo al centro, al Terzo Polo. Troppo furbo, Matteo Renzi, per giocarsela da front-man. Andasse bene, poi si vedrà: si tratterebbe, tutto sommato, di rispolverare copioni noti. Con Calenda ci si riproporrà agli italiani ostentando gonfaloni inneggianti a Mario Draghi: il top per l’Ue. Altro che Meloni, con i selfie freschi assieme a Orbán, altro che Letta, fedelissimo – fino in fondo – all’ex presidente Bce, ma ora alla guida d’una compagine “sporcata” dalla presenza di partiti che sono stati pervicacemente avversi al governo uscente. Temeraria la scommessa di Calenda & Renzi, la cui “simpatia” – nella “percezione dominante” – è pari forse a quella di tutti i primi della classe, snob e invisi al grosso della scolaresca che li subisce come corpi estranei, mali forse non necessari. Senza l’umiltà dovuta dai leader, si chiede fiducia agli elettori sull’agenda Draghi. Con luci e ombre.
Votare i programmi, quindi. Lasciando da parte, per una volta, questo e/o quel leader tutt’al più da 5 e mezzo. Valutare l’idea di futuro, sapendo che scrutando oltre l’attuale orizzonte non s’intravvedono in ogni caso cieli stellati (ogni riferimento – Giuseppe Conte si rassegni – a cose ancora esistenti è casuale).
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