Giorgia Meloni ha scelto, nei giorni scorsi, il video-spot come strumento per illustrare le misure varate dal governo in tema di occupazione e, al contempo, per entrare nel dibattito, quanto mai acceso, che ha accompagnato la Festa del Lavoro. Dal filmato (divenuto virale), in cui la premier “guida” gli spettatori nelle stanze di Palazzo Chigi sino alla sala dove era riunito l’Esecutivo, emergono la conferma di una deriva rischiosa e un ritorno al passato che svela una specifica esigenza.
Iniziamo dal primo elemento: la disintermediazione – non è una novità – è ormai cifra distintiva della comunicazione politica ad ogni livello e latitudine partitica. Rivolgere il proprio messaggio direttamente ai cittadini, sfruttando la Rete, significa evitare il confronto con la stampa e, conseguentemente, aggirare quella funzione di controllo che rappresenta uno strumento di tutela della democrazia. Già durante la crisi pandemica, ad esempio, l’allora Presidente Conte aveva fatto ampio ricorso a questo tipo di processo. A cascata, era stato imitato da amministratori regionali e locali. La disintermediazione offre indubbi vantaggi al politico di turno: nessuna domanda a cui dare risposta o format da rispettare, possibilità di farsi percepire particolarmente vicino dagli spettatori. In un’ottica populista, paradossalmente, è un’evoluzione del processo democratico. Ma la disintermediazione, in realtà, rinforza un pensiero unico, in cui la rappresentazione di chi comunica non si confronta con visioni alternative.
Passiamo al secondo spunto. Negli ultimi anni, la pratica della disintermediazione era stata declinata soprattutto attraverso un linguaggio tecnico specifico: quello dell’autoproduzione, di cui il selfie è principale espressione, che – spesso volutamente – lascia trasparire una qualità non elevata. Messa a fuoco incerta, sonoro “sporco” sono elementi che finiscono con il conferire genuinità al messaggio. Gli stilemi adottati dalla Meloni sono diversi e richiamano maggiormente quelli usati da Berlusconi nel 1994 per annunciare la discesa in campo. Una marcata professionalizzazione tecnica ispirata, nel caso della premier, ai modelli del documentario (piuttosto che della fiction). I ministri-comparse, nella scena finale, fanno risaltare ulteriormente l’immagine pubblica di Giorgia. Evidentemente, dietro a tale volontà c’è l’esigenza di affermare il proprio ruolo istituzionale, per certi versi il bisogno di essere riconosciuta quale leader, prima ancora che di apparire il più possibile sincera.
Marco Centorrino
Docente di Sociologia della Comunicazione Università di Messina
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