Malgrado possa contare su una maggioranza parlamentare ampia, su una leadership indiscussa nella coalizione di destra-centro e governi tutto e tutti, Giorgia Meloni non dismette l’abito dell’underdog né interrompe la professione di vittimismo, una postura che è la cifra naturale della presidente del Consiglio. Che trova la sua plastica conclamazione nella reiterata denuncia di “poteri occulti” e di coloro i quali effettuerebbero pressioni per continuare a dare carte. «Io non sono ricattabile», ribadisce. Ma si guarda bene dal dire chi la ricatterebbe. Lobbies economico-finanziarie? Segmenti della massoneria deviata? Politici o colletti bianchi di qualsivoglia derivazione che lambiscono ambienti mafiosi? O gruppi di pressione che magari fanno leva su organi di informazione? Meloni non lo rivela, limitandosi a rivendicare la forza di «non aver paura di nessuno».
Dai rapporti con l’Unione europea ai nodi della crescita economica, dal pastrocchio dei balneari e commercianti – una camicia di forza i paletti imposti sulla Concorrenza per l’esecutivo di destra-centro –, dal Mes alle banche, passando per il “caso Pozzolo” e l’inchiesta sulle commesse Anas (a proposito di lobbisti...), la premier ripropone l’idea della destra discriminata, sebbene ormai tutto decida e disponga. L’occupazione della Rai? È solo «un riequilibrio». Le riserve sul premierato? Fuoco di sbarramento alzato da chi «ha dato vita a governi» tramando «all’interno dei palazzi» e ignorando «la volontà popolare». Dal carniere delle frecce riservate alle opposizioni, una saetta viene riservata a Giuliano Amato, reo di aver sottolineato che il disegno di legge di riforma sui nuovi poteri da attribuire all’inquilino di Palazzo Chigi, azzoppa non solo la Presidenza della Repubblica ma anche la Corte Costituzionale. Poiché questa destra è debole di argomenti sul punto, Giorgia Meloni si limita a focalizzare un aspetto di principio e uno politico: deve governare – in estrema sintesi – chi vince le elezioni e, va da sé, con poteri più ampi; quest’anno vanno nominati dal Parlamento quattro giudici costituzionali e «siccome tocca a noi», afferma in conferenza stampa la leader di FdI, «a sinistra si agitano. Perché solo la sinistra» può occupare «le istituzioni». Come è storicamente accaduto in Rai, «con il Pd che imponeva il 70% delle nomine a dispetto del 18% dei consensi nel Paese». Dunque, niente lezioni.
Al netto delle dichiarazioni sugli obiettivi in via presuntiva colti dal governo nei primi quattordici mesi di vita – dai migranti alla sicurezza, dalla svolta nella tutela delle periferie e delle famiglie, la manovra finanziaria “dedicata” alle fasce più deboli, e pazienza se in Europa non è andato tutto per il giusto verso con buona pace di Mes e Patto di stabilità in “perdita”– quel che è riuscito meglio ieri alla premier è l’attacco frontale ai suoi più acerrimi nemici politici, individuati nell’ordine in Giuseppe Conte, Paolo Gentiloni e il Partito democratico. Da chi avrebbe potuto fare e non fece in lunghi anni di governo e chi a Bruxelles evidentemente rappresenta un ostacolo. Le repliche sono arrivate a stretto giro: «Tre ore di bugie, tre ore di puro melonismo».
E tuttavia bisogna riconoscere che qualche sassolino dalla scarpa Giorgia Meloni se lo è tolto anche con i suoi. «Non posso lavorare solo io. Chi sta attorno a me deve avvertire la responsabilità del ruolo assunto. Sarò dura con chi sbaglia». Ma basta con «le accuse di familismo», puntualizza piccata. Di fatto, però, la premier riconosce che gli straordinari e improvvisi consensi raccolti da Fratelli d’Italia sono inversamente proporzionali alla generale adeguatezza della classe dirigente del partito: qua e là sono state anche raccolte frattaglie. Quanto all’inchiesta sulle commesse Anas che coinvolge parenti acquisiti del vicepremier e segretario della Lega Salvini, la premier taglia corto: Matteo non c’entra niente. Certo, se poi dovessero «emergere evidenze che riguardano politici, saranno avanzate altre valutazioni ma in chiave garantista», perché i Pm sono una cosa e le sentenze un’altra. «Noi non siamo come M5S e Pd, garantisti con gli amici e giustizialisti con gli avversari». Però la sensazione è che sul “caso Anas” Giorgia stia sulla riva del fiume.
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