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Il ritorno di Trump alla Casa Bianca: la formula magica del vincitore, i troppi errori dei Democratici

Un risultato al di là d’ogni trumpiana, trionfale previsione. Peggio del peggiore degli incubi dei Democratici. Il ritorno del tycoon alla Casa Bianca, da lui pronosticato tra un processo e l’altro, apre una nuova pagina nella storia americana. Una vittoria netta, con i Repubblicani che riprendono peso – eccome – nel Congresso, infliggendo agli avversari politici una sconfitta memorabile.

D’altra parte, la scelta di consentire a Joe Biden di ritenere possibile la rielezione, nonostante i gravi palesi problemi di salute, è stata sconsiderata: il presidente uscente, disastroso nel confronto televisivo con Donald Trump, ha poi esitato troppo a mettersi da parte, e Kamala Harris – nome peraltro divisivo in casa Dem, chiedete a Nancy Pelosi – ha avuto solo cento giorni per “prepararsi”. E, se ci fosse stato più tempo, non sarebbe stata certo lei la candidata.

La maggioranza degli americani, dunque, non ha tenuto in alcun conto i “numeri”, pure significativi, dell’aumento del Pil durante l’amministrazione Biden; più tormentate, le fasce deboli, dalla crescita dei prezzi che ne affligge le giornate ormai da troppo tempo. Kamala Harris non ha saputo trovare le corde giuste per avvicinarsi alla gente, per rassicurarla; le promesse di Trump, invece, hanno fatto centro. Affiancato dal suo vice JD Vance, scelta azzeccata, e dal vulcanico onnipresente Elon Musk, l’ex presidente – smanioso di riprendersi lo Studio Ovale – è riuscito a parlare allo “stomaco” dell’America più dimenticata, perché con il suo voto desse uno schiaffo all’establishment di Washington e alle classi colte di New York.

Ma il successo riscosso tra la “gente comune”, la più “comune”, si spiega pure con la posizione di Trump sull’immigrazione illegale e sulle due guerre in corso, quella quasi “personale” – ormai – di Netanyahu in Medio Oriente, e quella tra Russia e Ucraina (Vance si è più volte espresso contro l’invio di aiuti a Kiev).

Non è un mistero che Vladimir Putin – anche se ieri si è mostrato cauto, «aspettando i fatti» – tifasse per il tycoon, ed è fin troppo chiaro che a Trump sono arrivati pure voti non propriamente conservatori. Gli elettori arabi americani del Michigan, per dirne una, hanno votato repubblicano col pensiero rivolto a Gaza, dove è in corso un conflitto atroce che va fermato il prima possibile e che Biden non ha davvero ostacolato. Riuscendo però, l’attuale amministrazione americana, ed è un paradosso, a pregiudicare lo storico feeling con Israele per le continue, se pure sterili, strigliate (quindi, nell’Election day, meno “voti ebraici”, persi un po’ qui e un po’ là...). Trump, che riposizionerà gli Usa rispetto alla Nato, probabilmente condizionerà fortemente Kiev perché negozi la pace “non prescindendo” da quanto chiesto dal Cremlino, e potrebbe “invitare” Netanyahu, che comunque ieri brindava, a rallentare a Gaza e in Libano, assicurando al contempo un rinnovato, concreto, maggior impegno Usa in Medio Oriente: si dovrebbe ripartire dagli “Accordi di Abramo” dell’estate 2020.

Trump, è certo, murerà i confini, e procederà con la «deportazione» degli immigrati illegali, arrivati a milionate nell’era Biden-Harris e molti già impegnati a lavorare in nero (ci saranno contraccolpi su parecchie imprese, private di manodopera); avvierà le «perforazioni» nel settore energetico, ovvero petrolio e gas, anche per far scendere i prezzi e arginare l’inflazione – cambieranno quindi sensibilmente le politiche Usa sul cambiamento climatico –; e... amplificherà i dazi, con ripercussioni serie pure sui Paesi Ue, dove in queste ore qualcuno festeggia.

I Democratici dovranno provare a ricucire i rapporti con le classi più umili del Paese, analizzare le ragioni delle batoste rimediate in Pennsylvania, Wisconsin, e in città come Detroit, in Michigan, che danno indicazioni chiare sugli orientamenti popolari. È qualcosa di singolarmente analogo a ciò che accade in Europa: la “sinistra” ha perso contatto con i “lavoratori”, o quantomeno la sintonia s’è annacquata. Così come, a proposito di guerre, va fatta propria la necessità di aspirare concretamente alla pace: per i palestinesi, per il popolo israeliano, in Ucraina. Può e deve bastare così.

Con Trump, mentre le sue beghe giudiziarie finiranno in naftalina, ci sarà un inevitabile arretramento sul fronte dei diritti civili, e l’affossamento di ogni politica green (“sconfessata” per motivi elettorali da Kamala Harris, ma tardi, e pagata pesantemente alle urne negli Stati chiave). Anche su quest’ultimo tema i Democratici dovranno imparare a proteggere chi, per le sacrosante svolte ecologiche, rischia di perdere il lavoro.

Il presidente Usa in fieri ha giurato che ci sarà «una nuova età dell’oro» per il suo Paese. A guardare oggi l’economia del pianeta, eccezion fatta per il conto in banca di Musk, destinato adesso a crescere ancora, non c’è da stare allegri; e tra guerre, epidemie e alluvioni globali, non c’è nulla – al momento – che luccichi. La diffidenza, almeno da questa parte dell’Atlantico – Trump non si meraviglierà –, è d’obbligo.

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