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Il trionfo di Jannik Sinner, la normalità di un extraterrestre

Lo vidi giocare per la prima volta nel novembre 2019 alle Next Gen di Milano, profittando di una visita a mia figlia. Alla quale dicevo: è del 2001 come te. E lei un po’ si arrabbiava e io dovevo puntualizzare che era solo una battuta e avrei recuperato con un giro da Sephora.
Aveva vinto il Challenger di Bergamo e raccolto i primi significativi risultati nel circuito maggiore. Gli diedero una wild card che era per lo più un omaggio al Paese ospitante. Lo vinse mettendo in fila Tiafoe, Mikael Ymer, Kecmanovic in semi e De Minaur in finale, cedendo solo a Humbert nella terza superflua partita del girone. Erano tutti più grandi li lui. Di ritorno a Messina dissi a un caro amico, altro orfano di Federer e in cerca di un nuovo punto di riferimento in grado di farti saltare il piatto con i pop corn mentre guardi un match di tennis sul divano: questo ragazzino di 17 anni nostro (ovvero italiano) è destinato alle vette più alte. Che poi fosse l’ Everest sarebbe stato tutto da scoprire.

Se qualcuno andasse a risentire le dichiarazioni di Sinner alla fine delle Next Gen vinte, scoprirebbe che non sono dissimili nel senso, nella non-mimica facciale e nella generale postura da quelle pronunciate dopo la finale stravinta di quello che continueremo a chiamare Master: un cammino trionfalmente imbarazzante. La normalità di un extraterrestre. Al netto del sempre politicamente corretto.

Vi risparmiano le statistiche, che ciascuno può trovare ovunque. Ci interessa altro. Il grimaldello del match contro Fritz sono stati i 10 ace del primo set. La cartina di tornasole di una crescita costante e impetuosa. Oggi non c’è tennista che possa contare su una diagonale di rovescio così potente e intensa, orizzontale e acuta negli angoli, che spiana la strada al lungolinea letale. Il ragazzo impara: quest’anno ha piantato i piedi sulla riga di fondo e questa posizione asfissia chiunque, tranne il migliore Alcaraz. Il dritto è un colpo composito che nessun maestro può insegnare: il polso è indipendente dall’avambraccio, il braccio dalla clavicola, per cui è sempre poco leggibile. Ha aggiunto la palla corta (di dritto), la volée non solo come raccolta del punto ormai virtualmente acquisito, una seconda palla di servizio che viaggia sempre intorno ai 180 chilometri orari, la consapevolezza di chi in una stagione porta a casa 70 match a fronte di sei sconfitte. Otto titoli (Master, 2 Slam, 3 ATP 1000, 2 ATP 500: insomma, roba pesante) e una finale persa a Pechino per un nonnulla.

Ma Sinner è un extraterrestre soprattutto dal punto di vista mentale. E non perché fa la cosa giusta nel momento in cui deve o trova l’ace frustrante che annulla la palla-break: quello lo fanno tutti i numeri 1 al mondo e pure in numeri due e tre. È un ragazzo di una forza straordinaria, che si fa esempio per tutti, e soprattutto per i più giovani, per quel che gli è accaduto da marzo in poi: la contestazione di doping. Una contaminazione infinitesimale da Clostelbol, uno steroide anabolizzante che il suo fisioterapista aveva utilizzato per curare lesioni alle mani e che aveva finito per “permeare il giocatore”. Non ci soffermeremo oltre, non tratterremo i motivi dell’assoluzione né quelli del ricorso i cui esiti saranno resi noti nella prossima primavera.
Ci interessa altro: la forza mentale nell’andare avanti, nel continuare a portare oltre il proprio lavoro, schivare gli sguardi sospettosi, gli attacchi diretti e indiretti, scendere in campo e provare a vincere ancora. E lavorare, lavorare, lavorare, alzando sempre l’asticella della curiosità che ti fa migliorare.
L’ Italia tennistica non ha mai avuto un campione di questa dimensione. Ne abbiamo cercato uno da inserire nei primi dieci almeno dalla fine degli anni Settanta. Ci ha fatto sorridere Berrettini solo pochi anni fa ma è durata poco. E per una volta, dopo aver ammirato svedesi e statunitensi, tedeschi e svizzeri, russi e argentini, gemme brasiliane e orde di australiani, finalmente è capitato a noi. Teniamocelo stretto e compriamo i pop corn.

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