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Nell'anniversario della vittoria contro l'Isis in Iraq, l'allarme: la minaccia non è finita

La devastazione a seguito della guerra in Iraq

Le istituzioni irachene si preparano a celebrare il primo anniversario della "vittoria" contro l’Isis, annunciata tra il 9 e il 10 dicembre del 2017, quando si disse che era stata «liberata» l’ultima località irachena nell’ovest del paese. Ma l’insurrezione jihadista non è affatto sconfitta. E dopo essersi data alla macchia, si è riorganizzata nelle campagne sia in Siria che in Iraq, lungo i due fiumi storici della Mesopotamia: il Tigri e l’Eufrate.

Il califfo Abu Bakr al Baghdadi, tante volte dato per morto e tante volte resuscitato in qualche Tora Bora siro-irachena, ha fatto perdere le sue tracce. La prima e ultima volta che è stato visto in pubblico era il giorno dell’annuncio della nascita dello "Stato islamico", nell’antica moschea di Mosul.

Mosul, appunto, da capitale dell’Isis è diventata da poco più di un anno - da quando è stata «liberata» dalle forze
governative irachene - la capitale dell’alcol, dove i negozi di whisky sono sempre più frequenti, e fanno concorrenza alla vicina Erbil, capoluogo della regione autonoma del Kurdistan iracheno. Su Mosul, ancora semidistrutta, hanno sorvolato a bassissima quota nei giorni scorsi jet della Coalizione anti-Isis a guida americana. Un sorvolo - affermano testimoni - per rassicurare gli abitanti dalle minacce del terrorismo.

Gli attentati terroristici rivendicati o attribuiti all’Isis non sono mai cessati veramente nell’Iraq «vittorioso». E nelle
ultime sei settimane, si sono avuti ben tre attacchi anche a Mosul, capoluogo della regione di Ninive, dove ci sono ancora diverse sacche dell’insurrezione jihadista mai annientata.

Dall’Anbar al confine con la Siria e alla regione siriana orientale di Dayr az Zor lungo l’Eufrate, alla regione irachena
di Diyala e a quelle di Kirkuk, di Salahddin, di Tikrit lungo il Tigri e i suoi affluenti, l’Isis è ancora presente. Anche perché le cause sociali ed economiche della sua affermazione sono sempre lì. Da quando gli equilibri del potere in Iraq sono stati rivoluzionati quindici anni fa con l’invasione anglo-americana e la deposizione del presidente Saddam Hussein, gran parte delle comunità sunnite sono state escluse dalla spartizione delle quote politiche e dei proventi del petrolio.

La risposta al fenomeno Isis è stata finora soltanto repressiva, militare e di sicurezza. E l’Iraq che oggi celebra
la «vittoria» contro l’Isis è un paese spartito tra Stati Uniti e Iran, con una crescente presenza di milizie sciite filo-iraniane nel centro e nel sud e uno strapotere delle forze curdo-irachene nel nord-est. E sebbene l’Isis oggi controlli soltanto l’un per cento del territorio che aveva al massimo della sua espansione - quando arrivò a tenere in mano una superficie pari alla Gran Bretagna - i suoi irriducibili miliziani, stranieri ma anche siriani e iracheni, continuano a dare filo da torcere a soldati e miliziani iracheni e siriani.

Nell’est della Siria, le forze curde filo-Usa non riescono a conquistare una zona di modeste dimensioni dove sono arroccati duemila jihadisti. E i governativi siriani, assieme a russi e iraniani, si scontrano periodicamente con i miliziani Isis nella Siria centrale.

Le celebrazioni del 9 e del 10 dicembre in Iraq serviranno la retorica del potere attuale, ma i semi del male rimangono radicati. E presto daranno vita a nuove insurrezioni violente.

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