Theresa May resta in sella come nulla fosse e la politica britannica continua a danzare sul ciglio del baratro. Annichilita ieri dal voto a valanga dei Comuni contro il suo accordo sulla Brexit, la premier Tory ritrova stasera d’incanto la propria maggioranza per bloccare la mozione di sfiducia al governo del leader laburista Jeremy Corbyn. E, senza cambiare quasi una virgola della sua retorica, si ripropone salda e rigida al centro di uno stallo destinato - se qualcosa non cambia in tempi brevi - a trascinare il Paese verso l’inerzia dell’incognita più temuta, dai mercati e non solo: un divorzio 'no deal' dall’Ue, alla cieca e senza rete.
Annunciata da Corbyn come un passo obbligato, di fatto senza speranze concrete di successo, la sfiducia non è passata per 19 voti, 325 contro 306. I 118 conservatori ribelli e i 10 alleati unionisti nordirlandesi che 24 ore prima avevano affondato la premier sul dossier chiave della Brexit unendosi alle opposizioni, mandando l’esecutivo sotto di 230 voti e producendo una disfatta storica senza precedenti che nelle parole del leader del Labour avrebbe indotto alle dimissioni «qualunque altro primo ministro» del Regno, si sono riallineati come un sol uomo. Tutti di nuovo nei ranghi - dai brexiteers più oltranzisti alle colombe eurofile favorevoli a un referendum bis - pur d’evitare lo spettro di nuove elezioni, quello d’un governo Corbyn e soprattutto quello di perdere i loro seggi. Un contrordine generale che lascia tutto così com'è, almeno per il momento. E suscita reazioni allarmate a Bruxelles, a Berlino o altrove. Angela Merkel prova a tendere la mano sottolineando che c'è ancora un pò di «tempo per trattare», ma spetta a Londra fare adesso «una proposta».
«Mai il rischio di un no deal è stato così vicino», avverte tuttavia il capo negoziatore Michel Barnier, ricordando come ormai manchino solo 10 settimane al 29 marzo, la data ufficiale d’uscita della Gran Bretagna dal club europeo.
Del resto, di rimettere in discussione la sostanza dell’accordo raggiunto a novembre i 27 non hanno alcuna voglia, ammonisce la stessa cancelliera tedesca. E se altri Paesi - Italia inclusa - non rinunciano a un approccio soft, da Parigi l’inguaiato Emmanuel Macron lascia intendere di essere sul punto di perdere la pazienza: con il suo gelido «buona fortuna» rivolto agli interlocutori d’oltremanica.
Nel botta e risposta odierno del dibattito sulla fiducia, Theresa May del resto non ha dato alcuna indicazione vera di come pensi di uscire dal vicolo cieco, salvo un riferimento vago e solo ipotetico alla richiesta di uno slittamento dell’articolo 50 e di rinvio di qualche mese della Brexit. La premier ha annunciato dopo il voto l’avvio di un dialogo bipartisan con tutti i leader dei partiti di opposizione prima di tornare in aula lunedì per aggiornare i suoi piani alla luce della batosta subita ieri. Ma al dunque ha insistito sulla bontà del suo accordo, sul «dovere di attuare la Brexit» e su una raffica di no: non solo a ogni idea di rivincita referendaria, ma anche di ripensamenti sostanziali sui paletti della sua strategia. A Corbyn, che dopo aver sollecitato invano Westminster a liberarsi di «un governo zombie» aveva comunque provato a sondarla sull'opzione gradita al Labour di rinegoziare con l’Ue se non altro la permanenza nell’unione doganale, ha risposto picche. Non senza prenderlo di mira a colpi di attacchi personali, come una minaccia alla sicurezza nazionale. Le speranze di un compromesso, in questo clima, si fermano per ora alla richiesta preliminare rivolta dal numero uno laburista all’inquilina di Downing Street di cominciare con il "togliere dal tavolo» qualsiasi ipotesi di 'no deal'. Ma sono talmente tenui da indurre i media a evocare le vie d’uscita più improbabili e fantasiose: fino a quella di un messaggio alla nazione della regina, che non ci sarà. Mentre i numeri e i veti incrociati rischiano d’impallinare ogni opzione alternativa reale, rinvii a parte: da quella di una bozza d’accordo riveduta e corretta da presentare a Bruxelles; a quella - spalleggiata da un centinaio di deputati laburisti - del secondo referendum.
«Nel momento in cui avremmo bisogno della massima flessibilità - ha confessato un anonimo ex fedelissimo della premier a Laura Kuenssberg, political editor della Bbc - abbiamo sotto questo profilo la peggior leader possibile».
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