Il messaggio alla nazione sulla Brexit di cui qualcuno vagheggiava non ci poteva essere, e non c'è stato. Ma Elisabetta II ha trovato comunque il modo di far sentire alla fine la sua voce, in un un Regno in preda alle incertezze, allo scontro e al rischio dello stallo, con un richiamo rivolto ai sudditi (ma valido anche per i politici che li rappresentano) a coltivare il dialogo, a essere capaci di "venirsi incontro» per cercare un minimo comune denominatore: insomma, a riscoprire l’arte del compromesso. Un appello in piena regola, nell’interpretazione unanime di media e commentatori reali, sebbene la regina - dall’alto dei suoi quasi 93 anni, 67 dei quali trascorsi sul trono, della sua esperienza di vita e della sua popolarità - si sia guardata bene dal citare direttamente la Brexit. O dal violare la rigorosa neutralità politica che una monarchia costituzionale deve garantire e a cui lei si è sempre mantenuta devota. «La pazienza, l’amicizia, il focus su un forte senso della comunità e sulla necessità di considerare le esigenze altrui sono importanti oggi» come nel passato, l’ha presa alla larga Sua Maestà intervenendo ieri sera a un evento per i 100 anni del Sandringham Women's Institute, nel Norfolk. Poi, il passaggio chiave: «Mentre cerchiamo nuove risposte per l’età moderna, io, per quanto mi riguarda, preferisco le ricette sperimentate: parlar bene gli uni degli altri, rispettare i punti di vista diversi, venirsi incontro per individuare il terreno comune, mai perdere di vista il quadro più generale». Un approccio «senza tempo che raccomando a tutti», ha insistito didattica, evocando concetti citati più vagamente già nel messaggio di Natale. La sensazione di un monito preciso, o se si vuole di una perorazione accorata, è stata istantanea. E per il Times, che vi ha dedicato oggi il titolo d’apertura, non vi sono dubbi: a pochi giorni dal nuovo voto ai Comuni di martedì 29, sulle proposte fantasma del 'piano B' della contestatissima premier Theresa May, la sovrana ha voluto fra le righe invocare semplicemente «la fine della faida sulla Brexit». Un auspicio non semplice da realizzare, d’altro canto. Almeno nell’immediato, mentre la data ufficiale del divorzio di Londra da Bruxelles - fissata salvo rinvii che May per ora si ostina a escludere - per il 29 marzo: fra ormai due mesi, un niente. Il muro contro muro resta in effetti tutto da sgretolare. Da un lato il Labour di Jeremy Corbyn che continua a chiedere alla premier Tory di eliminare dal tavolo ogni prospettiva di 'no deal' come premessa di qualsivoglia confronto, anche a costo di chiedere a Bruxelles una proroga dell’articolo 50 e uno slittamento della data del 29 marzo. Dall’altro May che, pressata dai falchi brexiteers di casa sua, tiene duro. E sullo sfondo il fronte trasversale dei pro-Remain più irriducibili, che non rinuncia a evocare un secondo referendum pur non avendo al momento i numeri a Westminster nemmeno su questo. A far da pontieri restano così solo le colombe ministeriali Amber Rudd e Philip Hammond, più sensibili ai timori di un mondo del business che - dalla Sony all’Airbus - si prepara già a rivedere la sua presenza in Gran Bretagna di fronte allo spettro di una traumatica uscita senz'accordo del Regno dall’Ue. La prima, ieri, non ha escluso neppure la minaccia delle dimissioni se il taglio netto dovesse diventare una opzione concreta. Il secondo, oggi, dopo aver inneggiato alla «enorme saggezza» della regina, ha paventato «disagi molto gravi» per l'economia e i commerci del Paese con un 'no deal'; mentre si è detto convinto che i 27 possano essere disposti a ridiscutere qualcuna delle loro «linee rosse» - magari sul dossier irlandese - laddove da Londra saltasse fuori una nuova apertura reale al compromesso: da parte dell’opposizione, certo; ma evidentemente - e in primis - anche dal numero 10 di Downing Street.