Prendere tempo e ancora prendere tempo. Non cambia la strategia di Theresa May, intenzionata in settimana a presentarsi alla Camera dei Comuni come promesso, entro San Valentino, ma solo per aggiornare i deputati sul problematico tentativo appena avviato con l’Ue di riverniciare l'accordo sulla Brexit bocciato il mese scorso con qualche rassicurazione «alternativa» al contestato meccanismo vincolante del 'backstop'. E chiedere loro lo slittamento d’un nuovo voto sulla ratifica a fine febbraio. La conferma arriva oggi da James Brokenshire, uno dei ministri più vicini alla premier Tory, che intervistato alla Bbc nel talk show politico della domenica di Andrew Marr ammette ciò che tutti sanno. Ossia che pensare di poter chiudere la partita appena riaperta con Bruxelles in due o tre giorni è inverosimile. E che quindi May si limiterà a invocare fra mercoledì e giovedì l’ennesimo rinvio, condito dalla promessa di di mettere ai voti «al più tardi il 27 febbraio» una «mozione emendabile» da sottoporre finalmente al verdetto che conta. Il mondo del business tuttavia non si fida, come conferma oggi stesso la leader della Cbi, la Confindustria britannica, Carolyn Fairbairn, evocando dagli schermi di SkyNews un Paese ormai in «zona di emergenza». Sullo sfondo della «sensazione di un iter parlamentare alla paralisi» e del pericolo crescente di "un no deal": quel traumatico divorzio senz'accordo a cui molti osservatori continuano a non credere, ma che minaccia d’innescarsi automaticamente se una qualunque altra soluzione concreta non verrà approvata prima del 29 marzo, data già stabilita nero su bianco per l’uscita del Regno dall’Ue. Mentre a non fidarsi sono del resto pure le opposizioni in Parlamento e un pò tutti i dissidenti dalla linea May: pronti a riaprire da subito la battaglia degli emendamenti. A preoccupare Downing Street non è tanto, almeno per ora, quello preannunciato sull'Observer da un pugno di laburisti e ribelli Tory pro-Remain per provare a riproporre lo sbocco finale d’un secondo referendum che al momento sembra mancare ampiamente dei numeri a Westminster. Ma potrebbe essere quello messo in cantiere da Keir Starmer, responsabile della Brexit nel governo ombra di Jeremy Corbyn, il quale teme che May possa seguitare in realtà a temporeggiare ben oltre febbraio, per poi imporre a Westminster un ultimatum secco, a pochi giorni dal 29 marzo, fra l’accordo che in quel momento dovesse avere in mano e lo spettro del no deal. E punta quindi a inchiodare la premier se non altro sul 26 febbraio come termine ultimo per sottoporsi una buona volta al 'meaningful vote', lasciando in caso di flop alla stessa Camera dei Comuni il potere di presentare ed eventualmente approvare proposte diverse: a cominciare da quella già formalizzata da Corbyn per una Brexit più soft, destinata fra l’altro nelle intenzioni a mantenere l’intero Regno nell’unione doganale. Una svolta del tutto ipotetica, date anche le divisioni interne al Labour, ma che ove mai benedetta da una maggioranza trasversale non potrebbe non rilanciare le ambizioni del 'compagno Jeremy' verso Downing Street. Incubo permanente di molti, incluso il Mail, tabloid di riferimento degli umori della destra d’oltremanica che proprio oggi si scatena contro la leadership laburista. Prendendo di mira la ministra ombra Diane Abbott, di origini caraibiche, addirittura come «antitesi della donna inglese bianca della middle class». E dando fiato alle 'rivelazioni' d’una biografia al veleno di Corbyn, bollato nel racconto attribuito a 2 ex mogli come dogmatico, «confusionario, pericoloso, caotico nella gestione del denaro» familiare: in una sentenza, come «inadatto al ruolo» di primo ministro.