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La May chiede all'Ue il rinvio della Brexit al 30 giugno

Theresa May

Proroga breve, a patto di riuscire finalmente a strappare - a un tiro di schioppo dal baratro - la ratifica del Parlamento britannico sull'accordo di divorzio raggiunto a novembre. E’ la pericolosa puntata secca, apparentemente su un numero solo, che Theresa May e l’Ue piazzano alla vigilia del Consiglio europeo come estrema giocata alla roulette della Brexit. Scommessa che minaccia peraltro di creare un ingorgo sulla strada delle elezioni europee del 23 maggio, con il rischio paradossale di dover farvi partecipare una Gran Bretagna in uscita.

Ma soprattutto non offre vie di fuga chiare, nel caso di un nuovo flop, per evitare l’ombra che spaventa di più: quella di uno sbrigativo no deal innescato dalla forza d’inerzia. La premier Tory, in ogni modo, si affida alle carte che le rimangono. In una lettera al presidente Donald Tusk, confermata da colloqui diretti con lui e con il numero uno della Commissione, Jean-Claude Juncker, annuncia la richiesta di un’estensione delle procedure d’uscita previste dall’articolo 50 del Trattato di Lisbona dal 29 marzo a «non oltre il 30 giugno».

Nel Question Time del mercoledì ai Comuni giustifica la scelta con toni categorici di dubbio effetto. Dice che «è tempo di attuare la volontà popolare, come il popolo merita», dichiarandosi «contraria» senza se e senza ma a uno slittamento protratto nei mesi e definendo «inaccettabile» un ipotetico coinvolgimento britannico nel prossimo voto europeo «a tre anni dal referendum» pro Leave del 2016. Rispondendo al grido «dimissioni» che sale contro di lei dai banchi delle opposizioni, imputa quindi all’assemblea d’essersi "concessa fin troppo all’Europa», di aver bocciato non solo il suo accordo (due volte), ma pure le proposta alternative, da quella per un secondo referendum a quella del leader laburista Jeremy Corbyn per una Brexit soft con permanenza nell’unione doganale. «Ora - alza la voce, liquidando alla stregua di una bestemmia contro la democrazia diretta qualsiasi idea di revoca dell’articolo 50 - questa Camera deve affrontare le conseguenze delle sue decisioni": ossia la strada offerta da lei oppure un orizzonte dal quale «non può essere tolto dal tavolo il no deal».

Il duello con Corbyn è aspro. Il capo del Labour le rinfaccia d’essersi inchinata ai «brexiteer estremisti» del governo e della sua coalizione (beccandosi per tutta risposta l’accusa di "non rispettare il voto del 2016"); denuncia «l'incompetenza, i fallimenti e le intransigenze» di Downing Street; torna ad auspicare «un compromesso» su un piano B; evoca in caso contrario una nuova mozione di sfiducia per provare a far cadere la premier; annuncia di voler andare anche lui in segno di sfida a Bruxelles per incontrare il negoziatore Ue Michel Barnier. A Bruxelles, però, l’interlocutrice resta per ora inevitabilmente lady Theresa. Tusk le offre una mezza sponda parlando di una proroga breve come d’una soluzione «possibile, ma condizionata a un voto positivo ai Comuni» entro la settimana prossima. Senza escludere un ulteriore summit straordinario prima del 29 marzo: potrebbe essere addirittura il giorno prima, il 28, è l’indicazione raccolta a Bruxelles. Certo c'è il nodo della data, come nota pure Juncker.

Il 30 giugno potrebbe andar bene e tuttavia pone ostacoli legali rispetto alle elezioni: se Londra non fosse fuori per il 23 maggio, dovrebbe in teoria essere della partita. Un intoppo tecnico forse non insuperabile, a quanto si capisce più tardi; al pari del resto della crisi istituzionale creata sul fronte interno dal veto dello speaker della Camera, John Bercow, su un terzo voto di ratifica sull'accordo di novembre se l’esecutivo lo ripresentasse in una mozione sostanzialmente identica. Il problema vero, su cui tutto è destinato a decidersi, resta semmai per la May quello di rimettere insieme i cocci d’una maggioranza nella quale gli euroscettici più irriducibili, tipo sir Peter Bone, non esitano a bollare come «un tradimento» anche la più corta prospettiva di rinvio. E di ritrovare la stampella degli unionisti nordirlandesi anti-backstop del Dup o della pattuglia di laburisti eletti in collegi filo-Brexit. Per salvare qualche chance non è escluso che la premier debba alla fine mettere sul piatto la sua testa e l’impegno a mollare (nel giro di pochi mesi) la poltrona. Pena il rischio di arrendersi al piano inclinato di un no deal più o meno accidentale.

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