La mia poltrona per la Brexit: Theresa May si gioca l’ultima carta per ancorare il suo nome a una pagina di storia e strappare in extremis il via libera all’accordo di divorzio dall’Ue, raggiunto a novembre e bocciato due volte a valanga a Westminster.
Dichiarandosi pronta a immolarsi, se non subito entro un paio di mesi, proprio nel giorno in cui il Parlamento britannico prova a mettere i piedi nel piatto, squadernando sul tavolo "voti indicativi" su ben 8 ipotesi di via d’uscita trasversali - diverse e contraddittorie fra loro, dal divorzio soft al no deal al secondo referendum - alternative alla strategia del governo.
La svolta, largamente preannunciata, è arrivata dalla riunione con i deputati del gruppo Tory radunati nel Comitato 1922, sede di ogni congiura del più vecchio partito britannico. "Sono pronta a lasciare l’incarico in anticipo pur di assicurare una Brexit ordinata», ha tagliato la testa al toro la premier dopo mesi di cocciuta resistenza all’angolo. «Ho capito che c'è voglia di un approccio diverso e di una nuova leadership per la seconda fase dei negoziati e non mi opporrò», ha aggiunto, assicurando di non voler approfittare della Brexit per restare in sella, ma che occorre «approvare e realizzare» prima l’uscita dall’Ue.
«Chiedo a tutti i presenti in questa stanza di sostenere l’accordo così che possiamo portare a termine il nostro dovere storico: attuare la decisione del popolo britannico e lasciare l’Unione Europea con un’uscita lineare e ordinata», ha concluso con un tono appassionato come non mai, secondo il racconto dei presenti. Parole capaci forse di fare breccia, anche se manca l'indicazione di una data precisa per lo sgombero da Downing Street. E che le è valso per cominciare il riallineamento dei maggiori capibastone della rivolta dei falchi Tory brexiteer (da Jacob Rees-Mogg a Boris Johnson, già pronto a candidarsi nella nuova corsa al vertice che la Bbc pronostica entro fine maggio), oltre alla speranza di un’astensione dei vitali quanto testardi alleati unionisti nordirlandesi del Dup. Mentre si scatenano le scommesse sui possibili traghettatori - fra i più gettonati il ministro dell’Ambiente Michael Gove e il vicepremier de facto David Lidington - ma anche sul potenziale epilogo di elezioni politiche anticipate e di una sfida all’ultimo voto con il Labour di Jeremy Corbyn. Certo, resta il problema della conta sull'accordo May. E anche dei paletti ribaditi dal dilagante speaker dei Comuni, John Bercow, sull'autorizzazione al terzo tentativo di ratifica in sé: possibile entro venerdì solo se l’intesa verrà ripresentata in una mozione «sostanzialmente diversa».
Qualche chance comunque adesso c'è. Come riconosce implicitamente Corbyn, commentando polemico l’offerta delle dimissioni come «un rattoppo» improntato a mettere pace in casa Tory e non a garantire «l'interesse nazionale» sulla Brexit. E di cui forse sarà costretto a prendere atto pure il presidente polacco del Consiglio europeo, Donald Tusk, che nelle ore precedenti non aveva rinunciato a incoraggiare a mezza bocca la ribellione dei Comuni sui piani B scommettendo sul caos per arrivare a un rinvio lungo e a una rinuncia dell’addio dell’isola all’Unione auspicati a nome della presunta «nuova maggioranza crescente» filo Remain fra i sudditi di Sua Maestà.
Una maggioranza che viceversa il governo May non riconosce: contrapponendo al milione di manifestanti anti-Brexit sfilati sabato scorso per Londra e ai 5,8 milioni di firmatari della petizione dei record per la revoca dell’articolo 50, il rispetto dovuto «alla democrazia» e alla volontà popolare dei 17,4 milioni di pro Leave del referendum del giugno 2016.
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