Contro tutte le previsioni, dopo un’aspra campagna elettorale e con un ribaltone del risultato pronosticato inizialmente dagli exit polls, i conservatori hanno vinto di misura le elezioni sotto la leadership del premier Scott Morrison. Un Morrison che ha cercato di mascherare la sua stessa incredulità dichiarando di aver «sempre creduto nei miracoli», cioè al 'miracolo' dei 74 seggi sui 151 della Camera dei rappresentanti assegnati alla coalizione guidata dal suo Partito liberale contro i 66 assegnati ai laburisti, grandi favoriti e in crescita nei sondaggi da quasi due anni. E il cui leader, Bill Shorten, definito dai media 'l'uomo che non può perdere le elezioni', ha rassegnato subito le dimissioni dopo aver riconosciuto la sconfitta, una vera doccia fredda, davanti alla folla dei sostenitori in lacrime. L’Australia, dunque, non volta pagina, ma sembra invece voler ritrovare un pò di stabilità nella sua leadership dopo una girandola durata un decennio, durante il quale si sono succeduti cinque primi ministri e in cui nessun leader che avesse vinto un’elezione si è mai presentato a quella successiva. E dimostra, come sostengono anche molti analisti, che la maggioranza dei suoi 16,4 milioni di elettori (il voto è obbligatorio in Australia e l’affluenza supera regolarmente il 90%) è sostanzialmente conservatrice, per il mantenimento dello status quo. Morrison ha dimostrato nei fatti di aver giocato bene una carta, che poteva alla vigilia sembrare perdente: non cambiare il cavallo quando l’economia va bene. Un’economia che è ora esposta alla crisi globale e alla concorrenza cinese. Morrison è probabilmente riuscito a convincere molti che la battaglia ambientalista e per il clima dei laburisti (che nel 2007 introdussero la carbon tax, poi abolita dai liberali nel 2011) sarebbe costata posti di lavoro e nuove tasse. Come la battaglia per riequilibrare gli squilibri socio-economici. E usando anche qualche tono populista, è riuscito a impostare la campagna sui risultati personalmente ottenuti in soli nove mesi da premier, sulla sua affidabilità, ricorrendo anche allo slogan, forse non originalissimo, 'Make Australia Great Again'. «Questa è stata una campagna dura, a momenti tossica, ma ora che la corsa è finita tutti noi abbiamo la responsabilità di rispettare il risultato, la volontà del popolo australiano e di stare uniti come nazione», ha detto il dimissionario leader del Labour Shorten, ingoiando la cocente delusione. Resta ora da vedere se la coalizione fra Partito liberale, il National Party e i partiti conservatori del Queensland e dei Northern Territories, con 74 seggi, due sotto la maggioranza assoluta, potrà reggersi da sola.