La Brexit divora i suoi figli. Dopo David Cameron, travolto nel 2016 dal referendum cui lui stesso aveva aperto la porta, anche Theresa May getta la spugna. Incapace di rompere lo stallo del Parlamento britannico e di venire a capo delle feroci lacerazioni nel suo partito, la premier britannica ha annunciato oggi la resa sull'orlo delle lacrime: il 7 giugno, archiviata la contestata visita di Stato di Donald Trump nel Regno (dal 3 al 5), si dimetterà da leader Tory, dando il via a un’affollata corsa per la successione - in cui Boris Johnson appare favorito, ma non senza rivali - destinata a designare automaticamente anche il prossimo capo del governo di Sua Maestà. Al più tardi, entro il 24 luglio. L’epilogo, ormai chiaro da un paio di giorni, questa volta è senza ritorno. E scatena già l’inquietudine delle cancellerie europee: dove Angela Merkel continua ad aggrapparsi all’offerta di «un’uscita ordinata», ma Emmanuel Macron s'affretta a evocare quanto prima «un chiarimento sulla Brexit» e Madrid rispolvera apertamente l’ombra di un traumatico «no deal». L’irriducibile caparbietà dimostrata in quasi tre anni a Downing Street dalla May in ogni caso non basta più. La sconfitta storica del suo mandato - chiesto per condurre in porto l’addio all’Ue all’insegna di uno slogan divenuto tormentone, «Brexit means Brexit» - passa agli archivi. Il fallimento dell’ultimo, disperato piano per strappare una ratifica parlamentare all’accordo di divorzio da Bruxelles attraverso una legge quadro di compromesso che avrebbe dovuto essere presentata ai Comuni il 3 giugno è stata la goccia che ha fatto traboccare un vaso già colmo di umiliazioni. Sulla scia delle monumentali bocciature dei tre tentativi precedenti dei mesi scorsi. Assediata dalla ribellione del gruppo parlamentare Tory, sollecitata a farsi da parte ormai dai suoi ministri, lady Theresa ha staccato la spina. Lo ha fatto però a modo suo: dopo una faccia a faccia in solitaria a Downing Street col deputato Graham Brady, presidente fino a stamattina del Comitato 1922, sancta sanctorum del partito, e quindi con un discorso dinanzi al portoncino al numero 10 segnato da un scoppio pubblico di emozione inedito per una figura dalla rigidità talora grottesca. Discorso a cui molti hanno riconosciuto toni di «dignità». Vestita di rosso, accompagnata a distanza solo dallo sguardo dell’inseparabile marito Philip e di pochi collaboratori strettissimi, la seconda premier donna della storia del Regno Unito dopo Margaret Thatcher ha evitato i giri di parole. «Ho fatto del mio meglio, purtroppo non ci sono riuscita», ha detto riferendosi ai ripetuti flop parlamentari sulla Brexit: «Un rammarico profondo che mi accompagnerà per sempre». «Ora ritengo sia nel miglior interesse del Paese» che un nuovo leader e un nuovo premier «rilanci questo sforzo», ha ammesso, insistendo sull'obiettivo ultimo di «attuare la volontà popolare» espressa nel referendum del 2016. Ha quindi rivendicato la sua idea di un Partito Conservatore «moderato e patriottico» e i risultati che si è attribuita sul fronte dell’economia, della riduzione del deficit, di un impegno almeno avviato per ridurre «le ingiustizie» sociali. Mentre ha invocato quel compromesso da lei forse cercato tardi come necessario, «non come una cosa sporca». Fino alle parole più difficili, pronunciate con la voce che le si spezzava e un groppo di pianto che le saliva alla gola: "Questo incarico è stato l’onore della mia vita, l’ho svolto con enorme e duratura gratitudine per aver avuto l’opportunità di servire il Paese che amo». Un finale di partita che le è valso la solidarietà di un Cameron «disperatamente dispiaciuto per lei» e reazioni di rispetto da molti altri. Ma non le risparmia il giudizio critico prevalente di politici e commentatori: incluso quello del leader dell’opposizione laburista Jeremy Corbyn, che nel suo verdetto coinvolge peraltro l’intero partito conservatore reclamando ora "immediate elezioni politiche» anticipate come strada maestra. La palla, tuttavia, resta per ora proprio in mano Tory. E a un futuro leader destinato con ogni probabilità - sia Johnson o meno - a essere più bellicosamente brexiteer della May. A maggior ragione sullo sfondo d’un voto europeo che oggi tocca la vicina Irlanda, ma che nel Regno si è tenuto già ieri. E che, in attesa dei risultati di domenica, prelude a un bagno di sangue per i Conservatori: ma a tutto vantaggio dell’oltranzismo del Brexit Party di Nigel Farage