La galoppata di Boris Johnson verso la successione a Theresa May ha subito una battuta d’arresto. L'ex sindaco di Londra è stato convocato in tribunale per rispondere dell’accusa di comportamento scorretto durante la campagna per il referendum sulla Brexit di tre anni fa. Nel mirino dei magistrati sono finite le ormai famose, o famigerate, dichiarazioni di Johnson sui 350 milioni di sterline che il Regno Unito deve inviare ogni settimana a Bruxelles in quanto stato membro dell’Ue. Frasi che hanno evidentemente avuto un impatto sull'elettorato euroscettico nel giugno del 2016 ma che per il giudice sono «bugie». Il procedimento contro l’ex ministro degli Esteri è partito dopo la denuncia di un privato cittadino, il 29enne Marcus Ball, che è riuscito a raccogliere più di 200.000 sterline grazie a un’operazione di 'crowdfunding' e ha messo insieme una squadra legale per portare l’accusa davanti a un magistrato. Da Johnson ancora nessun commento. Ma fonti a lui vicine bollano l’accusa come «una mossa politica per ribaltare la Brexit». Certo è che il caso è un bel piatto servito agli avversari dell’ex ministro, fuori e dentro il partito conservatore. Nella corsa alla successione di May, che dai primi di giugno lascerà Downing Street, ci sono già altri sette candidati che non aspettano altro di sbarrare la strada al biondo brexiteer. I due giovani outsider moderati, i ministri Matt Hancock e Rory Stewart, sfidano Boris a viso aperto; i falchi storici Esther McVey, Andrea Leadsom, Michael Gove, Dominic Raab che lo sfidano sul suo terreno. E infine Jeremy Hunt, attuale titolare del Foreign Office, che si presenta come pro Remain pentito e neo brexiteer, oltre che come ex businessman avvezzo ai negoziati, ossia come una delle alternative più concrete a sostituire la premier uscente. Già nel settembre del 2017 l’Istituto di statistica britannico aveva spedito una lettera all’allora ministro degli Esteri in cui lo accusava di avere fatto «un uso improprio di dati ufficiali». «Sono sorpreso e deluso», scriveva nella missiva il capo dell’istituto, Sir David Norgrove, spiegando che vnelle cifre snocciolate da Boris mancavano i soldi che il Regno Unito riceveva a sua volta da Bruxelles. A onor del vero, Johnson non fu il solo ad agitare il fantasma dei 350 milioni, tanto che la cifra divenne lo slogan della campagna euroscettica, stampata a caratteri cubitali sull'autobus dei pro-Leave. Unica eccezione Nigel Farage, che subito dopo il voto popolare prese le distanze da quei numeri. I tempi del procedimento a carico di Johnson sono lunghi. Alcuni commentatori politici parlano di settimane, forse mesi. E chissà che Boris non debba presentarsi in tribunale da nuovo premier del Regno Unito.