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Salta l'intesa tra Netanyahu e Lieberman, Israele verso il ritorno al voto

Israele verso nuove elezioni dopo il voto di poco più di un mese fa: è la prima volta nella sua storia. Al termine del mandato esplorativo che scadeva alla mezzanotte di martedì, il premier incaricato Benyamin Netanyahu non è riuscito a trovare un’intesa con il suo ex ministro della Difesa Avigdor Lieberman.

Il leader nazionalista laico di 'Israele casa nostra' non si è mosso di un millimetro dalla sua richiesta - per entrare al governo - di un’applicazione senza sconti della legge sulla riforma della leva per gli studenti ortodossi, vista invece come il fumo negli occhi dai partiti che sostengono la coalizione di maggioranza.

Il tutto - in uno scenario istituzionale senza precedenti - mentre la Knesset, su iniziativa del Likud, il partito del premier, ha optato per il proprio scioglimento pur di impedire al presidente Reuven Rivlin di affidare un nuovo incarico o ad un altro deputato di destra o all’opposizione di centrosinistra di Blu-Bianco guidata da Benny Gantz, il rivale delle ultime elezioni. Una prassi che lo stesso Rivlin, pur condannando il ritorno alle urne, ha riconosciuto corretta e nei poteri della stessa Knesset.

«Non capisco la mentalità di Lieberman, sembra che abbia deciso di restare fuori dal governo e di portarci alle elezioni», ha denunciato Netanyahu mentre dal suo partito arrivavano bordate contro l’ex ministro della Difesa, accusato addirittura di «sovversione» per aver respinto ogni tentativo di mediazione. «Vuole distruggere Netanyahu e prenderne il posto», ha insistito il Likud inasprendo i toni di una campagna in corso da giorni.

Ma Lieberman - come sempre in questa settimana - è stato un muro di gomma: l’ex ministro, dimessosi nei mesi scorsi per l’arrendevolezza mostrata, a suo dire, da Netanyahu con Hamas a Gaza, ha fatto spallucce nonostante le forti pressioni giunte da tutte le parti, Usa compresi, per non mandare all’aria il governo di destra indicato dall’ultimo voto. Il leader della minoranza russa si è limitato a ribadire di «volere sì uno Stato ebraico ma non uno Stato retto dalla halachà», ovvero l'ortodossia religiosa.

Poi alla Knesset - in seduta plenaria per votare lo scioglimento - ha confermato che «non c'è altro problema che quella legge». Anche l’ultimo escamotage tentato da Netanyahu di offrire alcuni ministeri ai laburisti pur di accaparrarsi i loro preziosi 6 deputati (uno in più rispetto a quelli di Lieberman)  è fallito. L’offerta del premier è stata respinta. Le elezioni quindi si avvicinano e, a meno di sorprese, con tutta probabilità Israele tornerà al voto il 17 settembre.

In gioco però, hanno avvertito gli analisti, non c'è solo il destino di un governo di destra e gli equilibri politici interni, ma molto di più. Con il ritorno alle urne infatti Israele non avrà un governo presumibilmente fino a novembre e questo significa che non ci sarà un interlocutore nella pienezza dei poteri per affrontare lo spinoso e imminente piano di pace che il presidente Usa Donald Trump si appresta a diffondere e le cui implicazioni economiche saranno illustrate al seminario di Manama in Bahrein del 25 e 26 giugno prossimi.

Certo, come è già successo, Trump potrà rinviare la presentazione del piano. Ma da novembre in poi sarà impegnato su ben altro fronte, per lui molto più delicato: la propria rielezione.

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