A Pechino la considerano l'ennesima provocazione di Donald Trump: la vendita di un grosso quantitativo di armi a Taiwan. A presentare la proposta in Congresso è stato il capo della diplomazia Usa Mike Pompeo.
Nella richiesta, messa a punto dalla Defence Security Cooperation Agency del Dipartimento di Stato, figurano 108 carri armati Abrams, decine di veicoli corazzati Hercules, camion per il trasporto di attrezzature militari pesanti e oltre 200 milioni di dollari in missili Stinger per la contraerea. Un pacchetto complessivo da 2,2 miliardi di dollari su cui Capitol Hill ha 30 giorni di tempo per avanzare eventuali obiezioni, ipotesi considerata remota dalla maggior parte degli osservatori.
Così le tensioni tra Stati Uniti e Cina rischiano di subire una nuova escalation, rendendo ancor più complicata la partita sui dazi. Proprio ora che sembrava esserci una schiarita nei negoziati tra le due superpotenze, dopo il faccia a faccia tra il presidente americano e quello cinese Xi Jinping a margine dei lavori del G20 di Osaka, in Giappone. Pechino ha già fatto sentire con forza la sua voce per bocca del portavoce del ministero degli Esteri Geng Shuang, il quale ha chiesto «il ritiro immediato della vendita di armi a Taiwan», esprimendo «forte insoddisfazione» e «ferma opposizione» alla decisione del Dipartimento di Stato Usa. Del resto per la Cina l’isola è solo una provincia che più volte ha minacciato di riprendersi con la forza. Mentre la Casa Bianca sembra decisa a confermare il suo sostegno a Taipei che, anche se non ufficialmente, resta un alleato degli Usa.
Tutto risale agli anni '70 quando, dopo il disgelo iniziato nell’era dell’amministrazione Nixon e lo storico viaggio del
presidente americano a Pechino, gli Usa per stabilire relazioni diplomatiche con la Cina comunista nel 1978 ruppero quelle con Taipei, sposando la politica chiamata "One China", una sola Cina. Alla Casa Bianca c'era Jimmy Carter. Ma dopo 37 anni è stato proprio Trump, appena eletto presidente, a compiere il primo gesto di rottura, nel dicembre del 2016, rispondendo a una chiamata della presidente taiwanese Tsai Ing-wen che si congratulava per l’elezione del tycoon. Fu la prima crisi internazionale dell’era Trump e il primo scontro frontale tra il tycoon, non ancora insediatosi alla Casa Bianca, e la Cina. Proprio Tsai Ing-wen questa settimana sarà in Nord America, con la prima tappa prevista a New York. Un fatto destinato ad alimentare le frustrazioni di Pechino che su un cambio di rotta
Usa verso Taiwan non ne vuole proprio sapere.
Intanto la tensione resta altissima anche ad Hong Kong, dove alla governatrice Carrie Lam non è bastato dire che la contestata legge pro-Pechino, quella che prevede la legalizzazione dell’estradizione verso la Cina, «è morta». «Non è sufficiente», ha replicato il fronte degli oppositori che ribadisce punto per punto le sue richieste: il ritiro definitivo della legge, le dimissioni della governatrice, un’inchiesta indipendente sull'operato della polizia durante le dimostrazioni delle ultime settimane e la caduta delle accuse nei confronti dei manifestanti ed attivisti arrestati. Per questo, hanno assicurato i leader del Civil Human Rights Front, «la protesta va avanti», con nuovi cortei previsti per il fine settimana.
Persone:
Caricamento commenti
Commenta la notizia