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Johnson avverte: la mia Brexit o le elezioni anticipate

Boris Johnson

All in. Si gioca tutta in tre giorni, in un Regno Unito in piena fibrillazione e con l'orizzonte sempre più concreto di elezioni anticipate, la mano decisiva nella partita di poker sulla Brexit fra Boris Johnson e il fronte che continua a non arrendersi al divorzio dall’Ue. O almeno a un traumatico divorzio senz'accordo alla data del 31 ottobre, indicata come spartiacque irrevocabile dallo scapigliato neo primo ministro Tory.

BoJo si prepara allo scontro sfoggiando le maniere pesanti che l’utilizzo muscolare - se non la forzatura - della normativa britannica mette a sua disposizione. Ribadendo in uno statement serale di fronte a Downing Street di non voler chiedere ulteriori rinvii dell’addio a Bruxelles «in alcuna circostanza», dopo aver minacciato di espellere dal gruppo parlamentare conservatore tutti i deputati ribelli che a partire da domani - data di riapertura post estiva di Westminster prima della contestata sospensione del Parlamento preannunciata dal governo dalla settimana prossima al 14 ottobre - dovessero unirsi al Labour e ad altre forze d’opposizione nel tentativo d’approvare il progetto di legge anti-no deal appena messo sul tavolo dal laburista Hilary Benn e ispirato alla speranza di un’ulteriore proroga di tre mesi da chiedere ai 27.

Una legge che del resto l’influente Leader of the House, il ministro arci-brexiteer dei Rapporti con la Camera dei Comuni Jacob Rees-Mogg, non esita a equiparare a una questione di fiducia. Adombrando chiaramente la spada di Damocle d’un altro voto politico anticipato sull'isola: appuntamento che Johnson assicura di non volere, ma che secondo i media si prepara a innescare giovedì (circola già la data del 14 ottobre) in caso di sconfitta dell’esecutivo in aula sulla proposta Benn. La mossa del premier mira a imporre la disciplina di partito con le buone o con le cattive in vista di un confronto parlamentare all’ultima scheda. Ma anche a dimostrare ai dissidenti Tory irriducibili - fra 12 e 16, stando ai calcoli aggiornati dei media, dopo il rientro fra i ranghi dei più malleabili - che la via delle urne, e della purga dei reprobi dalle candidature, è a questo punto più di una ipotesi: con tanto di bozza di mozione di scioglimento della Camera già pronta.

Per recapitare un messaggio senza equivoci, Johnson ha fatto precedere il suo breve discorso alla nazione sia da un Consiglio dei ministri «di emergenza», sia da un incontro con i deputati del suo partito, dopo aver sbattuto la porta in faccia alla richiesta di un meeting separato con un drappello di Tory moderati guidati da Philip Hammond, ex cancelliere dello Scacchiere. Il refrain non cambia: l’alternativa, nelle sue parole, è fra allinearsi a lui o a Jeremy Corbyn 'il rosso' e alla pretesa di un ennesimo «rinvio senza senso» che rischia di "tagliare le gambe» allo stesso tentativo di rinegoziare un accordo con l’Ue senza backstop. Corbyn da parte sua replica da Manchester raccogliendo la sfida.

Determinato a cercare di sottrarre il controllo del calendario parlamentare al governo, di unire tutti coloro che intendono provare a «fermare il no deal» e di «salvare il Paese dall’abisso» attraverso una legge: unico strumento disponibile in questa fase, visto che né le petizioni popolari né le proteste di piazza possono nulla. Un obiettivo per raggiungere il quale la settimana appena iniziata potrebbe rappresentare "l'ultima chance», ammette il numero uno laburista. Disponibile peraltro a sua volta ad accettare la scommessa delle elezioni, malgrado le polemiche interne allo schieramento anti-Boris al riguardo. Con la contrarietà aperta dei Liberaldemocratici di Jo Swinson come di Tony Blair, predecessore (e detrattore) del compagno Jeremy, convinto che affrettarsi alle urne - invece di cercare di promuovere la carta pur problematica di un secondo referendum - possa finire per favorire il nuovo corso Tory a causa dell’impopolarità attribuita al portabandiera attuale del Labour fra gli elettori moderati. Ma comunque rassegnato a votare «pure per Corbyn» qualora la resa dei conti elettorale dovesse diventare in fondo inevitabile.

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