Messo per il momento all’angolo ai Comuni, Boris Johnson sposta la battaglia per la Brexit in piazza. E anticipa la sua campagna elettorale senza freni, a dispetto della porta in faccia ricevuta in prima battuta dall’opposizione a Westminster sulla convocazione immediata delle urne. Campagna che tuttavia inizia subito con un passo falso: le improvvise e brucianti dimissioni dal governo, dal parlamento e dai Tories del fratello minore eurofilo Jo. Sconfitto alla Camera sulla legge anti-no deal promossa dai suoi contestatori per imporre un rinvio del divorzio dall’Ue oltre la scadenza del 31 ottobre e, poi, sulla prima mozione messa ai voti per poter indire le elezioni il 15, il premier Tory ha risposto alzando se possibile i toni ancora di più. In un discorso interpretato come una sorta di comizio d’esordio, ha sparato a zero sull'avversario laburista Jeremy Corbyn: scelto - anche per il profilo di sinistra radicale e le divisioni che suscita - come bersaglio simbolo su cui concentrare gli strali. La strada del voto, ha ripetuto, non è quella che avrei voluto io, ma è ormai l’unica possibile per sciogliere i nodi e uscire dallo stallo. Non senza bollare le resistenze di Corbyn al riguardo - perlomeno sulla scelta della data - come «un insulto codardo alla democrazia». Il tentativo è evidente. Far crescere la pressione sul numero uno del Labour, che per mesi ha invocato il ricorso alle urne, in vista di una seconda mozione per lo scioglimento della Camera dei Comuni preannunciata oggi stesso per lunedì 9. Mozione in grado di passare solo con un’ampia maggioranza, fuori portata se i laburisti e le altre forze di opposizione resteranno in trincea come il compagno Jeremy pare intenzionato a restare: spinto da molti a giocare a rimpiattino con l’ok al voto almeno sino a novembre, dopo aver assicurato in un modo o nell’altro che il 31 ottobre non ci sia un’uscita del Regno senz'accordo dal club europeo, in barba ai proclami di Johnson. Ma mozione che, in caso di nuovo stop, offrirà se non altro a BoJo e ai suoi il destro per rinfocolare ulteriormente la retorica del messaggio 'popolo contro palazzò. Un concetto su cui il primo ministro ha martellato pure nella sua concione odierna fra elettori dell’Inghilterra profonda, nella contea settentrionale dello Yorkshire. Ai quali ha ribadito che il testo anti-no deal votato ieri ai Comuni dagli oppositori e da 21 dissidenti Tory di spicco (tutti espulsi senza esitazioni, a costo di suscitare un vero terremoto nel gruppo parlamentare) altro non è se non «la legge della resa" dinanzi a Bruxelles, destinata a moltiplicare «i rinvii e le tergiversazioni» a tempo indefinito, a impedire la fantomatica prospettiva di un nuovo accordo di divorzio dall’Ue depurato dal contestato backstop sul confine irlandese e «in sostanza a rovesciare il risultato del più grande esercizio democratico della nostra storia, il referendum del 2016». Un obiettivo a cui lui, Boris, insiste di non aver la minima intenzione di piegarsi, sfidando di fatto coloro che vogliono una proroga a sottoporsi all’elettorato. O altrimenti, se ne sono capaci, a provare a sfiduciarlo per inventarsi in extremis un qualche governo multicolore transitorio (sotto la guida di Corbyn a quel punto, salvo problematiche innovazioni istituzionali) disposto a firmare l’umiliazione dell’ennesima richiesta di rinvio. Al suo fianco Johnson si ritrova in questa giornata campale due campioni della più coriacea destra internazionale: il premier israeliano Benyamin Netanyahu e il vicepresidente degli Usa Mike Pence, entrambi in visita a Downing Street per chiedere a Londra impegni nel confronto con l’Iran. Ma anche per manifestare sostegno a un «amico» politico. E, nel caso di Pence, per promettere ancora una volta a nome di Donald Trump un accordo bilaterale di libero scambio transoceanico, generoso e privilegiato, quando la Brexit sarà finalmente realtà. Sostegni che contano, ma non cancellano gli ostacoli in casa per il successore di Theresa May. Scottato dallo scontro ormai da lui stesso innescato nel Partito Conservatore, fino al gelido addio del fratello viceministro Jo: da sempre filo Remain e in contrasto con lui sulla Brexit, eppure finora leale ai legami di sangue. Ma incapace adesso di digerire gli ultimi sviluppi, fra purghe interne e toni barricadieri. O di risolvere «la lacerazione tra famiglia e interesse nazionale».